domenica 26 aprile 2015

MONTE LUNGO 8 DICEMBRE 1943

MONTE LUNGO 8 DICEMBRE 1943 -  LA RINASCITA DELL’ESERCITO ITALIANO








Dopo la tragica situazione venutasi a creare con la firma dell’armistizio con le forze anglo-americane l’8 settembre 1943, il Regio Esercito Italiano può ancora contare su una forza di 430.000 uomini dislocati nell’Italia Meridionale , in Sardegna e in Corsica con un equipaggiamento e armamento assai carente.








Dopo diversi contatti con gli Alleati   per la costituzione di una forza armata tutta italiana, questi  in un primo momento non sono assolutamente d’accordo ad impiegarli in operazioni terrestri, ma utilizzare i soldati italiani con funzioni ausiliarie nelle retrovie come addetti ai trasporti di materiali,sicurezza delle retrovie.

Dopo ulteriori e più pressanti richieste , finalmente gli Alleati il 27 settembre 1943 (dopo solo 19 giorni dalla firma dell’armistizio) autorizzano la costituzione  di una forza armata tutta italiana con l’obbligo di non superare le 5.200 unità, stabilendone  il comando nella cittadina di Maddaloni(Caserta)
Questa unità prenderà il none di 1° Raggruppamento MotorizzatoItaliano.
Esso è costituito dal 67° Reggimento di Fanteria “Legnano” ,dal 51° Battaglione Allievi Ufficiali dei Bersaglieri e dall’11°Reggimento Artiglieria e servizi minori.
Il Comando viene affidato al Gen. Vincenzo DAPINO . Il Raggruppamento dopo un adeguato periodo di addestramento viene trasferito a  da Maddaloni a Mignano di Monte Lungo(Caserta)
Successivamente il Raggruppamento verrà aggregato  al 2° Corpo d’Armata Alleato.
Finalmente il battesimo del fuoco avviene l’8 dicembre 1943 una giornata gelida e offuscata dalla  nebbia, i soldati  del 1° Raggruppamento Motorizzato Italiano iniziano l’assalto a quota 343 di Monte Lungo.

Il successo iniziale purtroppo si vanificherà a causa della accanita resistenza  da parte tedesca  e precisamente  dal III Battaglione del 15° Reggimento Panzer Grenadier  dell 29^ Divisione Tedesca e dalla Divisione Herman Goering.

Diradatasi la nebbia i tedeschi contrattacano e gli italiani sono costretti a ripiegare.
Nel corso di questo combattimento  cadono due allievi ufficiali mantovani appartenenti  al 51° Battaglione Bersaglieri e precisamente Gino TAMBALO e Mario CARDONE che per il loro eroico comportamento in battaglia verranno decorati di Medaglia d’Argento al Valor Militare.





Malgrado l’insuccesso iniziale i reparti italiani si ripresero e il 16 dicembre 1943 dopo un adeguato fuoco di preparazione durato 45 minuti da  parte dell’artiglieria scatta l’ordine di attacco e alle ore 12,30 quota 343 di Monte Lungo è saldamente in mano italiana e  in vetta sventola il tricolore.
La conquista di Monte Lungo da parte italiana consentì agli Alleati di aprire loro la strada per Roma e per Monte Cassino iniziando da qui la liberazione dell’Italia dal tallone tedesco.
A Monte Lungo si immolarono i più puri figli d’Italia provenienti dalla pianure dalle città e dai monti pieni di speranze e di gioia.

Tutti dobbiamo sapere che a Monte Lungo riposano gli eroi del Secondo Risorgimento Italiano, i combattenti che riaprirono la via dell’onore e della salvezza dell’Italia, testimoniando con il loro sacrificio che anche in tempi bui per la nostra Patria seppero comportarsi con orgoglio dignità e onore.
Tra l’8 e il 16 dicembre 1943 per la conquista di Monte Lungo furono impiegati circa 1.000 uomini, costato agli italiani un notevole tributo di sangue con 82  Caduti, 195 feriti e 162 dispersi.

Una battaglia combattuta con onore per i soldati che non hanno accettato di "sottomettersi"  agli alleati ed hanno dimostrato valore e onore.....anche Borghese rilascia parole di rispetto per questa azione miliare tutta Italiana.....


lunedì 29 dicembre 2014

CONFINE ORIENTALE E PULIZIA ETNICA





Oggi parliamo delle Terre della frontiera orientale italiana: la Venezia Giulia con Gorizia, Trieste, l’Istria e Pola; Fiume ed il suo territorio; la Dalmazia, con le Isole, Zara, Spalato, Ragusa, Sebenico, Traù e le città minori.

Ma distogliamo per breve tempo lo sguardo dalle nostre Terre, dove la pulizia etnica iniziata nel 1943 fece varie migliaia di morti fra italiani, ed esaminiamo a più ampio raggio quale fu il comportamento della potenza sovietica nell’intera Europa, ancor prima dello scoppio della seconda guerra mondiale.

A tale proposito vi leggo testualmente uno scritto del Professor Arnaldo Mauri, professore emerito e già decano della Facoltà di Economia dell’Università Statale di Milano(1)

Innanzitutto sottolineo che gli eccidi a cui faccio riferimento non riferiscono al 1945, anno in cui sarebbero stati “giustificati” dall’università dell’URSS da parte dei nazisti e dai milioni di morti che ne sono seguiti, nel corso della guerra.
Mi riferiscono invece al periodo 1939-1940 per spiegare che si tratta di stragi compiute a freddo in base ad un disegno politico criminale ma chiaro: la snazionalizzazione di territori occupati e l’eliminazione in anticipo di potenziali avversari o resistenti. Specifico che non si è neppure trattato di rappresaglie come alle Fosse Ardeatine o a Marzabotto perché allora non era ancora iniziata nessuna forma di resistenza contro gli occupanti sovietici.
Questi fatti seguono il Patto di Mosca (tra Stalin e Hitler per la spartizione dell’Europa centro-orientale) del 1939, che precede di alcuni giorni l’invasione della Polonia prima da ovest da parte della Germania poi da est dall’URSS.
In seguito l’URSS invase anche Lituania, Estonia e Lettonia, poi Finlandia che si oppose con coraggio all’invasione sovietica e infine alla Romania che accettò invece l’ultimatum sovietico e cedette all’URSS circa il 20% del territorio nazionale (la Bucovina Settentrionale, la Bessarabia e il terrtorio di Hertza, già in parte della Romania ante prima guerra mondiale). Da notare che la Romania, paese filo-occidentale, aveva i confini garantiti da Francia e Inghilterra e quindi l’invasione avvenne dopo il crollo della Francia.
Sono totalmente fuori da questo discorso invece Austria, Ungheria, Ceco-Slovacchia, Bulgaria e resto della Romania che furono occupate dall’Armata rossa nel 1945, e quindi le stragi avvennero in epoca successiva.
In tutti i territori occupati ed annessi dall’URSS dal 1939 in poi, ma prima dell’invasione nazista dell’URSS e quindi in pieno accordo con gli amici nazisti (ci sono foto e filmati che testimoniano l’incntro e il tripudio di ufficiali sovietici e nazisti che brindano alla vittoria contro la Polonia; Parata militare congiunta di Brest Litovsk, 1939), vennero nel giro di qualche settimana o di qualche mese arrestate centinaia di migliaia dio persone considerate potenziali nemici dell’URSS. Si trattava di militari (soprattutto ufficiali), pubblici dipendenti, insegnanti, intellettuali, professionisti, sacerdoti, proprietari fondiari, imprenditori, impiegati bancari.
Destinazione degli arrestati erano i gulag siberiani da cui molti non sarebbero mai tornati.
In verità per una parte degli arrestati il viaggio fu molto breve. Vennero subito abbattuti a migliaia con il classico colpo alla nuca. In seguito, dopo l’avanzata tedesca, vennero trovate fosse comuni un po’ dappertutto. Sono note (ma sono solo uno dei ritrovamenti) le fosse di Katyn dove vennero trucidati a freddo migliaia di militari polacchi che si erano consegnati ai sovietici per sfuggire alla cattura da parte dei tedeschi.
Anche a migliaia di romeni, che pur avevano accettato senza resistenza l’occupazione sovietica finirono nelle fosse comuni colpevoli solo di figurare nelle liste delle persone potenzialmente anti-sovietiche. In Romania è ricordata con dolore la strage di Fantana Alba (Fontana Bianca) in Bucovina. Numerose famiglie di contadini con donne e bambini in fuga con le masserizie e le icone verso il nuovo confine vennero intercettati dai sovietici e massacrate senza pietà. I feriti, anche i bambini, vennero finiti a colpi di baionetta.
Tutte queste notizie sono reperibili su internet anche in lingua italiana (Wikipedia).
La Parata sovietico-nazista di Brest Litovsk è reperibile nella versione polacca.

Terminata questa lettura, vi rammento, la creazione degli stati-satelliti dell’URSS, dopo il 1945, ciascuno retto da governi eletti con elezioni non democratiche, in Bulgaria, Romania, Germania dell’Est, Polonia, Albania. Vi rammento in particolare l’Ungheria, cui sono legato da particolari ricordi, con la sua rivoluzione del 1956, stroncata nel sangue dalle truppe sovietiche. Vi rammento la Ceco-Slovacchia, con la sollevazione del 1971, Jan Palak che si brucia in piazza, la repressione nel sangue operata dalle truppe sovietiche. Vi rammento la stessa Jugoslavia, che venne espulsa dal Cominform nel 1948, perché si discostava dalle direttive dell’URSS, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
Passiamo ora a parlare, io e gli altri esuli presenti, dell’esodo giuliano-dalmata, dalle nostre Terre, sciaguratamente cedute alla Jugoslavia dalle potenze Alleate.
Quale testimone dell’esodo, preciso che sono nato a Pola nella notte del 5 ottobre 1943, la stessa notte in cui Norma Cossetto, Medaglia d’Oro al Valor Civile alla Memoria, finiva la sua vita, dopo orrende sevizie, gettata dai partigiani nella foiba di Villa Surani in Istria.
Sono partito con i miei genitori il 2 febbraio 1947, quindi all’età di tre anni e mezzo ed i miei ricordi diretti sono l’Arena di Pola, una spiaggia presso la tragica Vergallona ed i terribili fischi di addio alla città della sirena della piccola nave “Pola”.
Perché partì la stragrande maggioranza della popolazione di Pola? Sostanzialmente per la paura generata dalle notizie di sparizioni di persone e dai successivi ritrovamenti di cadaveri nelle profondità delle foibe, di alcuni pozzi di miniera e di cave di bauxite, che si erano avuti nel 1943 e nuovamente ed in maggior misura nel 1945-1946; inoltre e soprattutto, per la certezza di un’invasione di popoli stranieri e del dominio di un regime che negava i diritti elementari dei cittadini, la libertà di pensiero, la proprietà privata, la religione, qualunque essa fosse.
Vi fu un evento che, nel caso di Pola, convinse la popolazione che avrebbe dovuto partire in massa, nel caso dell’assegnazione della città alla Jugoslavia, caso che era ancora in dubbio nella prima metà del 1946.
Vergarolla è una località che si affaccia all’interno del vasto porto di Pola.
A guerra finita, il 18 agosto 1946, un emissario della polizia segreta jugoslava del maresciallo Tito, l’ OZNA, provocò l’esplosione di 29 mine marine, contenenti circa 9 tonnellate di tritolo, che erano state tirate in secca e disattivate da artificieri inglesi delle truppe di occupazione. L’esplosione fu provocata al culmine di una manifestazione sportiva e di italianità , organizzata dalla Società Nautica Pietas Julia, mentre sulla spiaggia si trovavano centinaia di polesani, tra i quali moltissimi giovani e bambini. Si contarono 109 bare ed una cassa di resti, mentre le vittime identificate con nome e cognome furono 64 o 67, secondo le fonti.
Dopo le vicissitudini di viaggi verso l’ignoto e di alloggi di fortuna (noi tre riuscimmo ad evitare la permanenza nei campi profughi) ho avuto sulla mia pelle e davanti ai miei occhi, per tutta la vita, gli effetti dell’esodo, che ci privò di ogni avere e sconvolse la vita dei miei genitori e familiari per lunghi anni, fino a quando tutti riuscirono a ricostruirsi una vita, quelli che sopravvissero. E poi? E ora? Vi ricordo che noi esuli ancora attendiamo, dopo 64 anni, il risarcimento di tutti i nostri beni immobili, abbandonati alla partenza per l’esilio, e che tuttora in qualsiasi ufficio pubblico possiamo trovarci davanti ad un computer non aggiornato secondo legge, che rifiuta i nostri documenti per pratiche importantissime oppure banali ma senza fine, portano la colpa tutti gli innumerevoli governi che si sono avvicendati dal 1947 ad oggi.
Alcuni documenti personali:

Documento n. 1: è la “Dichiarazione di volontà di esodo in Italia” compilato a Pola, l’11 luglio 1946 con il nome di mia madre per lei e per i famigliari, dalla Camera Confederale del Lavoro. Si dichiara “…la volontà di esodo in Italia, nel deprecato caso che la città venga ingiustamente assegnata alla Jugoslavia”. Osserviamo la data, è importante: mancano ancora 38 giorni alla strage di Vergarolla, ma già almeno 5476 famiglie (è il numero del documento) hanno già deciso. Nel corso del 1946 il Governo Italiano a Alcide De Gasperi stesso insistessero con le autorità e la popolazione di Pola affinché non partissero, senza che vi fosse la percezione di cosa comportava tale assurda richiesta e di quali maggiori sofferenze avrebbe comportato il lunghissimo ritardo nell’organizzazione dell’esodo.

Documento n. 2 : è il “Certificato di Profugo” rilasciato a Pola il 03 gennaio 1947, cioè 30 giorni prima della partenza, a nome di mio padre, mia madre e mio; il mio nome Tito, in quei giorni e per molti anni ancora impronunciabile come una bestemmia, viene storpiato, dall’impiegato, in Vito. L’ente amittente è, paradossalmente, il C.L.N., che si è trasformato tristemente nel Comitato per l’esodo, nel Comitato per la auto-distruzione della città.
E’ un bel tragico destino che chi intendeva liberare le nostre Terre dal nazi-fascismo debba collaborare per fuga dei cittadini dalle mani dell’alleato, che ha preso il sopravvento e si dimostra un nemico peggiore di quello appena sconfitto.

Documento n. 3: è la “Qualifica del profugo”, documento molto importante dal punto di vista ufficiale, perché determina una “qualifica”, con vantaggi e svantaggi. Vi è chi la rifiuta, ritenendola un “marchio d’infamia”. Questo esemplare, intestato a mio padre, viene emesso dalla Prefettura di Milano in data 08 gennaio 1949, essendoci stabiliti a Milano sin dal settembre 1947.

Documento n.4:è un altro documento fondamentale, la “Opzione per la cittadinanza italiana” espressa “solennemente” da mio padre per se stesso e per me; un documento analogo esiste per mia madre. Secondo i termini del Trattato di Pace firmato dall’Italia il 10 febbraio 1947, i cittadini dei “territori ceduti” hanno il diritto di esprimere la loro scelta, la loro “opzione” per la cittadinanza italiana oppure quella jugoslava ed il Governo Jugoslavo ha il potere di accettare tale scelta oppure rifiutarla, in determinati casi. Il documento viene presentato al Consolato Generale della Jugoslavia a Milano, il 24 giugno 1948.

Documento n. 5: è l’accoglimento della “opzione” da parte del Governo Jugoslavo datato 07 agosto 1953, cioè ben 5 anni dopo “opzione” stessa. La comunicazione, trasmessa dal Comune di Milano, è datata 26 ottobre 1953.

Documento n.6 : mostra alcuni dati sull’esodo giuliano-dalmata dopo la seconda guerra mondiale:partono fra l’80 ed il 94% degli abitanti; rimangono le persone che hanno una convinzione ideologica favorevole al regime comunista jugoslavo, le persone trattenute perché ritenute indispensabili al funzionamento di servizi essenziali, i prigionieri, i vecchi senza famiglia, gli ammalati senza famiglia, alcuni contadini che non ritengono giusto di abbandonare il bestiame e la terra.

Documento n.7 : è il “Manifesto dei partigiani italiani di Pola”, documento di altissima drammaticità pubblicato nel 1947: è il saluto disperato dei partigiani di sentimenti italiani, in partenza come esuli ed insieme con tutti gli altri esuli, ai loro compagni di lotta di sentimenti slavi o “internazionalisti”, che rimangono sul territorio il quale, appena liberato dal giogo tedesco-nazista, è passato immediatamente al giogo jugoslavo-comunista.
In questo documento i partigiani italiani ricordano le tragedie di una lotta sanguinosa condotta insieme, la speranza di aver ottenuto una liberazione, la disillusione più profonda per l’avvenuto tradimento degli ideali di libertà e di democrazia per i quali avevano combattuto insieme con i partigiani jugoslavi.

Documento n.8: è un altro documento pubblicato nel 1947. La pagina intitolata “Maria Pasquinelli” ricorda l’assassinio del Generale di Brigata Robert (Robin) de Winton, alla cui memoria tutti noi esuli ci inchiniamo, avvenuto a Pola il 10 febbraio 1947, giorno della firma del cosiddetto Trattato di Pace di Parigi, per mano dell’insegnate bergamasca Mariua Pasquinelli. Ella intende, con il suo atto esecrato, richiamare l’attenzione del mondo sull’ingiustizia che le grandi potenze vincitrici compiono nell’assegnare alla Jugoslavia città e territori che sono italici dagli albori della storia e poi italiani di lingua, cultura e tradizioni. Maria Pasquinelli lascia uno scritto in cui spiega il suo gesto, ritenendo di rimanere uccisa nel corso dell’attentato e di dannare la propria anima come omicida e come suicida. Invece la scorta del Generale de Winton, che è disarmata, può non ucciderla ma arrestarla; viene processata e condannata a morte, con pena che verrà successivamente commutata in carcere a vita; dopo 18 anni di carcere, la Regina Elisabetta II di Inghilterra, che noi esuli ringraziamo, consentirà che possa tornare in libertà; passerà lunghi anni in convento. Oggi 5 maggio 2011 Maria continua a scontare la sua pena, in vita, in una casa per infermi a Bergamo.


Documento n. 9 :” POLA, ADDIO”- il cartello che comparve a Pola nei giorni dell’esodo

venerdì 12 dicembre 2014

PIU' BUIO CHE A MEZZANOTTE NON VIENE

NP





A TU PER TU CON AMICI E NEMICI.

Alba piovigginosa quella del 27 aprile 1945. verso le sei del mattino telefonammo al Collegio Navale di S. Elena dove si erano già concentrati gli NP che ci avevano preceduto seguendo la litoranea, nonché parte delle forze esistenti sul posto. Fu inviata una grossa barca a motore. Ci precedeva il sergente maggiore Luigi Marini seguito a breve distanza dal cugino Antonio: arrivati sul posto d’imbarco lo vedemmo trascinare via da alcuni uomini. Sulle sue tracce lanciammo due squadre di cinque NP, una comandata da Borgogelli, l’altra da ragazzi di Venezia, pratico dei luoghi. In lontananza dai tetti delle case, partirono colpi di fucile uno dei quali ferì a un piede Borgogelli che fu subito ricoverato in ospedale. Nel frattempo perdemmo di vista Marini (1) Collocammo i 20 prigionieri nel sottoponte e disponemmo gli uomini ai bordi della barca con il compito di tenere sotto tiro incrociato un piano di finestre per ciascun gruppo: ordine di sparare al minimo segno di sospetto. A prua e a poppa due fucili mitragliatori. Tutto andò per il meglio fino a Piazza S. Marco, dove vedemmo avvicinarsi un’altra barca a motore carica di comunisti, ben individuabili dai fazzoletti rossi che portavano al collo, i quali avevano creduto trattarsi di “compagni”. Gli NP si preparavano: il nostro silenzio e il fatto che nessuno rispondeva ai loro saluti li spaventarono e invertirono rapidamente la rotta.
A Piazzale Roma avevamo lasciato tutti i materiali esuberanti sotto la responsabilità di Ragazzi, con alcuni NP.
Sbarcati al Collegio navale di S. Elena fummo accolti entusiasticamente dagli amici che ci avevano preceduti, dal Capitano di Fregata Ferdinando Corsi e dal capitano di Corvetta Aldo Lenzi.
Nella stessa mattinata giunse anche il Comandante Buttazzoni e, insieme a Vercesi, venne deciso di continuare l’addestramento dei circa seicento tra NP, Lupo, Fulmine, Comando Marina e di un gruppo della X Mare che aveva sede su un’isola vicina. Vercesi assunse il comando degli uomini e Zarotti propose un’ufficiale responsabile per ogni settore: magazzino, spaccio, amministrazione, armeria. Rapido inventario delle scorte, che risultano abbondanti in ogni senso, ivi compresi i fondi di cassaforte. Era il 28 aprile 1945. Seicento uomini in mutandine e maglietta presentarono, a chi ci spiava dalle case vicine, uno spettacolo forse unico in Europa, ora che la guerra era finita. Inviammo in giro per la città ragazzi in borghese perché ci tenessero informati di quanto stava succedendo. Ci riferirono che la presenza del battaglione paracadutisti della Decima, così chiamava la gente, teneva ferme in tutta Venezia le velleità di disordini e proteggeva anche i reparti tedeschi. Quello stesso giorno alcuni partigiani, fatti audaci dalla nostra tranquilla indifferenza, piazzarono una mitragliatrice su un tetto vicino. Fu subito trasferita sul nostro terrazzo una mitragliera da 20 e il capopezzo, con il megafono, avvertì i dirimpettai che non doveva scappare un colpo nemmeno per errore. Nessun colpo scappò.
Due giorni prima del nostro arrivo il Comandante Lenzi aveva già avuto un contatto con l’Ammiraglio Franco Zanoni, il quale gli disse che a noi non rimaneva altra via che arrenderci. Lenzi gli aveva risposto che questa soluzione non era possibile:” Uno si arrende al nemico quando è in guerra con lui. Io non sono in guerra con voi né voi siete miei nemici. Io sono in guerra con gli Inglesi e gli americani. Solo a loro posso arrendermi”. Inutile dire cge questa impostazione corrispondeva alla realtà ed era condivisa da tutti noi. Forse erano possibili altre alternative di compromesso ma nessuna avrebbe garantito, una volta deposte le armi, non tanto il rispetto dei patti quanto la possibilità di raggiungere incolumi le nostre famiglie. Vercesi e Zarotti erano di questo parere, confortati da quello dei nostri uomini migliori e più intelligenti: prigionieri degli inglesi si sarebbero fati autotrasportare nell’Italia del sud ove avrebbero ripreso completa libertà di iniziativa, come in effetti avvenne. Di tutti quelli che seguirono la voce della ragione fu assicurata l’incolumità anche se, per molti, ciò significò un anno di dura prigionia. Il CNL farà tutto nei giorni successivi per convincere Lenzi e Butazzoni ad arrendersi prima dell’arrivo degli Alleati per potersi presentare loro come i liberatori di Venezia (in teoria in mano al CNL, in realtà in mano nostra).



















IL CNL INFRANGE I PATTI

Dopo vari incontri con ufficiali del SIM (Servizio Informazioni della Marina) Lenzi e Butazzoni si collegarono via telefono con il Comitato di Liberazione. Il CNL invitato a inviare un parlamentare, si rifiutò perché Piazzale Roma era ancora nelle mani degli uomini di Regazzi. Allora Butazzoni, in divisa e armato, salì su una gondola a motore pilotata da Carusci, in tenuta da gondoliere, e si presentò in prefettura. Qui incontrò vari esponenti della città, tra cui l’ammiraglio Zannoni e il maggiore Aurelio Molesini, fortemente allarmati per la situazione di piazzale Roma dove da un momento all’altro dovevano arrivare i carri armati e le truppe alleate. Ragazzi, incurante del pericolo personale, sparava a vista su chiunque tentasse di affacciarsi al piazzale ed era ben munito anche di panzerfaust anticarro (2). Butazzoni consegnò una sua nota firmata a Molesini con la quale ordinava a Regazzi di cessare il fuoco. Ragazzi obbedì.
In un primo momento chiese di aver libero il passo con tutti gli uomini per Trieste, in difesa della città che stava per essere occupata dai Titini nel C.L. ma nessuno aveva voglia né potere di assumersi questa responsabilità. Trattò la resa: tutti gli NP sarebbero stati lasciati liberi, muniti di un salvacondotto firmato dal C.L.N., mentre il solo Buttazzoni sarebbe rimasto a disposizione. Chiese che fossero inviati plenipotenziari in caserma per l’esecuzione dei particolari di resa e il verbale fu controfirmato da entrambe le parti.
Al rientro del nostro Comandante, Vercesi e Zarotti si dichiararono perplessi sulla consegna delle armi tanto più che alcuni NP avevano già deciso di consegnare solo le armi guaste e di nascondere quelle funzionanti. Il sergente Raffaele Peretti ci pose una domanda cui non sapemmo rispondere “i salvacondotti sono in grado di garantirci l’incolumità, sempre?”. Era già tutto pronto a Sant’Elena. Il giorno dopo entrarono in caserma in veste di plenipotenziari, il capitano dei Bersaglieri martinelli e il maggiore Molesini a cui consegnammo le chiavi dell’armeria dopo avergliela mostrata sracolma delle nostre armi guaste. Conclusa la parte formale degli accordi ci sedemmo a un tavolo avendo di fronte, Vercesi e io, i due del CLN: fu facile fraternizzare e suggellare il patto consegnando, io la ia pistola, Vercesi la sua (3). Con due ufficiali erano entrati in caserma un gruppo di carabinieri, una ventina di armati e un commissario di polizia. Nel pomeriggio le trattative erano concluse. L’ Ammiraglio Zannoni e alcuni membri del CNL giunsero a sant’Elena in motoscafo e i comandanti Lenzi e Butazzoni con tutti gli ufficiali andarono a riceverli al barcarizzo. L’ammiraglio teneva alla forma e la visita doveva essere il suggello definitivo dei patti.
Arrivò però la notizia che tutti gli accodi erano stati annullati per intervento di gruppi di partigiani comunisti i quali si erano imposti con la forza al C.N.L. Chiamammo a raccolta gli uomini che in un baleno, e senza armi, disarmarono i guardiani e, sullo slancio, si impadronirono di una mitragliatrice puntata su di noi al di là di un ponticello. Entrarono in caserma subito dopo i due rappresentanti del CNL, Martinelli e Molesini, molto depressi, che restituirono le pistole a Vercesi e Zarotti dichiarando da soldati d’onore, che si consegnavano a noi. Non ci restava che lasciare agli inglesi di farci da autisti nel trasferimento verso l’Italia centro-meridionale dove, tra l’altro avevamo non pochi amici.
Per Venezia era corsa come un fulmine la notizia che i parà della Decima erano in mar ia su piazza S. Marco “per fare poltiglia dei comunisti” ; azione che non entrava minimamente nelle nostre intenzioni. Cessò di colpo, però il ronzare delle barche con fazzoletti rossi; sfilarono invece motozattere tedesche per andare ad autoaffondarsi sparando traccianti bianco-rosse-verdi.
Il 2 maggio un ufficiale, un sottufficiale e alcuni soldati inglesi entrarono con molta discrezione e ci dichiararono loro prigionieri di guerra aggiungendo che, per il valore dimostrato combattendo, ci veniva concesso l’onore delle armi e la facoltà di conservare armi e sentinelle fino al trasferimento. Erano nel reggimento Qeen’s e la prima impressione non lusinghiera che avevamo fu cancellata quando apprendemmo che erano specificatamente informati di tutto ciò che ci riguardava.


ABBRACI CON GLI NP DEL SUD

Il giorno successivo Zarotti stava discutendo con il comandante Lenzi quando, da dietro, si sentì sollevare di peso e piroettare in giro per la stanza al grido di “Abbiamo finalmente catturato un vecchio pirata di Tarquinia. Ora staneremo gli altri”. Stesso comportamento con gli altri ufficiali presenti e grande festa corale soprattutto quando entrò il comandante Nino Butazzoni. I nuovi venuti erano NP del S. Marco (del sud) che avevano risalito la penisola combattendo con gli alleati. Dovevano ripartire subito e noi avremmo voluto andare a difendere Trieste con loro: Sogni ovviamente (4) . Tuttavia ciò che rendeva meno pesante quell’ora era la dimostrazione dell’amicizia fraterna sopravvissuta a tutte le traversie.
Avevamo già provveduto a pagare ai presenti tre mensilità di stipendio, come premio di smobilitazione, non dimenticando nessuno dei feriti o dei giacenti in vari ospedali. Poi rifornimmo tutti gli uomini di indumenti, sigarette e scatolette di viveri: anche in questo caso fino ad esaurimento delle scorte. Ai molti uomini che ci chiesero di essere lasciati liberi, dopo aver valutato la situazione di ciascuno demmo l’autorizzazione solo a quelli che avevano rifugi sicuri. Altri, non direttamente appartenenti al nostro reparto, se ne andarono di loro iniziativa ma molti, purtroppo, perdettero la vita.







CON L’ONORE DELLE ARMI

Dall’ ufficiale che accolse la nostra resa (5) apprendemmo che alcuni giorni prima gli altri battaglioni del nostro gruppo si erano arresi a Padova con l’onore delle armi tributato in modo solenne. Il comunicato delle ore 01 del 29 Aprile 1945 letto da un’ufficiale britannico diceva.”Anch’io ho conosciuto come voi il dolore della sconfitta e delle prigionia quando a Tobruk, un giorno felice per le vostre armi, dovetti arrendermi con la mia compagnia a soldati valorosi come voi, quanto voi. Tra questi soldati vi erano anche marinai del S. Marco. In nome di Sua Maestà britannica concedo al 1° Gruppo di combattimento della X MAS l’onore delle armi”. Il Gruppo estremo omaggio al valore sfortunato, poté conservare le armi per l’intera notte e i giorni seguenti.
Il giorno successivo all’arrivo degli inglesi fu d’obbligo preparare le cerimonia dell’ammaina bandiera. Fu d’obbligo perché avremmo voluto ritardarla ancora: a soldati di una lunga milizia dura ed onorevole è questa la cerimonia più amara che possa toccare.
Schierati in un perfetto ordine, dopo un breve discorso del Comandante Buttazzoni, si procedette ad ammainare la bandiera della RSI; intensa e palpabile la commozione. Il commissario di polizia, turbato, volle stringere la mano al Comandante ponendosi a sua disposizione. La bandiera fu fatta a pezzi e distribuita a tutti: molti conservano ancora quello struggente ricordo.
Le disposizioni dei vincitori furono le seguenti:
  • trasferimento di tutti gli NP in Algeria (le truppe speciali come le nostre costituivano una seria preoccupazione per tutti)
  • il solo comandante Buttazzoni doveva restare a disposizione dei servizi militari alleati.
  • Buttazzoni, venne trattenuto a Venezia dopo la nostra partenza per la prigionia, subì vari interrogatori dai servizi segreti inglesi e americani. Gli NP del S. Marco del Sud cercarono di convincerlo a fuggire: avrebbero preparato e facilitato la fuga. Buttazzoni rifiutò con fermezza desiderando seguire il destino dei suoi uomini. Da Venezia fu portato prima a Mestre, poi a Rimini e quindi alle Torrette di Ancona:in quest’ultimo campo di concentramento trovò Lenzi, Ceccacci, Fraschini e diversi altri.
In campo di concentramento noi NP fummo considerati, come truppe speciali, “recalcitrans” e tenuti spesso separati dagli altri e controllati più rigorosamente.




VUAGGIO VERSO LA PRIGIONIA

Zarotti, incluso tra quelli trasferiti, evitò la lunga traversia degli interrogatori e forse, ebbe modo di essere scagionato recisamente e definitivamente.
Mai il nostro Comandante venne meno alla fiera e dignitosa regola militare: pose sempre la propria vita a garanzia di tutti i suoi atti e di quelli dei suoi NP i quali, a loro volta, non furono da meno. Per il suo comportamento si guadagnò ammirazione e solidarietà: assai più degli americani che degli inglesi. Dal campo di concentramento di Torrette (Ancona) fuggi rocambolescamente nel settembre nel settembre 1945.
Noi tutti, imbarcanti su vaporetti a avviati verso piazzale Roma sotto la scorta di pochi soldati inglesi, avemmo modo di far conoscere ai Veneziani, chissà con quale sollievo per i comunisti, che stavamo andandocene: chi ci salutava col pugno chiuso riceveva insulti. Comportamento opposto quando qualche persona, specie in gramaglie, ci salutava con gesti affettuosi. Perché non ci fossero dubbi sulla nostra identità, tutti ripetemmo lungo il percorso il ritornello della canzone “Decima flottiglia nostra che beffasti l’Inghilterra” e rispondendo, ad ogni “DECIMA MARINAI!” lanciato da Alvisi, con un formidabile “DECIMA COMANDANTE”!”. Venezia, affollata da una ressa quanto mai cosmopolita e variopinta, ci ascoltava e guardava stupita. Quando, vicino a piazzale Roma, passò sotto bordo una barca da competizione e gli occupanti ci salutarono col pugno chiuso, i ragazzi senza esitazione si privarono di molte scatolette e la barca si rifugiò in un rio laterale. Al momento dello sbarco un mostriciattolo trentenne, una specie di Tersite redevivo, ci accolse con voce stridula e la frase “impiccateli corda e savon” ecc. spalleggiato da altri; un ceffone di un nostro ragazzo ristabilì silenzio e rispetto.
Caricati su una lunga colonna di automezzi, insieme a tutti gli altri prigionieri concentrati a Mestre, il giorno dopo partimmo per Forlì che attraversammo tra due file di folla inferocita urlante minacce di “ A MORTE!” ; “A MORTE!” , che salivano ad ondate sempre più violente. La spiegazione venne quando ci accorgemmo che sul telone di testa era salito il sergente Montini, bolognese, che provocava la folla con insulti di straordinaria potenza.
Appena arrivati ad Ancona subimmo la prima razionale perquisizione, con sottrazione di alcuni di quegli oggetti di valore che alcuni di noi, ingenui, non avevano pensato di nascondere. Poi partimmo in treno per Afragola (Napoli) dove ci riunimmo con il grosso del gruppo di combattimento, cioè Barbarigo, Lupo Colleoni e Freccia.
Trattamento duro sempre. Pochi viveri, poca acqua, molte angherie. Coricarsi sul terreno duro e, in viaggio, lo sfibrante passar la notte in 40 per vagone: impossibile stendersi tutti contemporaneamente (in tutti gli eserciti si sa bene quanto più contino 8 cavalli che non 40 uomini).
Quando ripartimmo da Afragola per Taranto, nell’attraversare il paese con la popolazione che inveiva urlando insulti e minacce, agli inglesi questa volta, qualificati “carnefici di questi poveri figli”, Vercesi, Palomba, Alvisi, e decine di altri furono trascinati a viva forza dentro ai portoni e aiutati a fuggire. Prima di arrivare a Taranto l’ultima beffa fu quella di sganciare il vagone di coda, i cui occupanti, usciti sulla massicciata, ci salutarono gridando Decima e sventolando i fazzoletti.
Ci imbarcammo a Taranto la terza decade di Maggio. Durante la traversata passammo il tempo con un nuovo diversivo: arruolare soldati negri, e non soltanto negri, nel nostro futuro esercito promettendo il doppio del soldo inglese e americano.



  1. Luigi Marini fu in seguito liberato in occasione di uno scambio di prigionieri.

  1. Non avevamo colto l’importanza strategica dell’autorimessa di piazzale Roma: bloccare i carri armati sul ponte di Mestre e impedire l’entrata degli alleati a Venezia avrebbe avuto risonanza mondiale e coronato degnamente la nostra vicenda: Tutto il mondo “liberato”, meno Venezia. E, questo, ad opera degli NP della X Mas.

  1. Due anni dopo Zarotti si incontrò con Martinelli in piazza de Duomo a Milano: si abbracciarono e Martinelli dichiarò di slancio che mai avrebbe pensato di rimpiangere così intensamente di non aver seguito la nostra stessa strada.

  1. Si trattava degli NP del sud, tenente medico Athos Francesconi, tenebti Achille Ambrosi e Angelo Garrone, con il gruppo dei Marò al comando del Ten. Ezio Tartaglia, diretti al fronte quali nostri complimenti. Prima di potersi collegare al Btg. Tartaglia si trovò costretto a porre il suo comando a Cà Tiepolo. In quel momento due gruppi di NP del Nord e il gruppo di NP del Sud (al comando di Ambrosi) si trovavano a non molta distanza fra loro ma, in pratico, impossibilitati a congiungersi.
Attraverso il Po di Goro (il ponte era crollato), Ambrosi giunse a contatto vocale con il gruppo Tartaglia e ne chiese la resa. Tartaglia obiettò che, anche volendo, non avrebbe potuto arrendersi a chi, giuridicamente, non era suo nemico; al che Ambrosi, in attesa che la situazione si chiarisse, si ritirò momentaneamente dopo aver scambiato con Tartaglia un corretto saluto militare di congedo.
Nel frattempo, ormai sopravanzato dal nemico e perciò tagliato fuori dalla lotta, Tartaglia si era asserragliato nel fabbricato del Consorzio Agrario di Cà Tiepolo; così, mentre il Btg. NP stava raggiungendo Venezia dopo una lunga serie di combattimenttùi, egli si trovò a dover trattare con il CNL del luogo. Fece presente che, essendo un militare, non poteva dar credito e udienza a civili; nondimeno, informato che la popolazione aveva urgente bisogno di farina, fece portar fuori quanto richiesto. Venne in tal modo a stabilirsi un insolito rapporto di amicizia mentre sul Consorzio continuava a sventolare la bandiera della RSI unitamente al gagliardetto della X MAS. Il giorno successivo gli uomini di Ambrosi, preceduti da un tenente inglese di collegamento, concessero l’onore delle armi al gruppetto di NP e al loro comandante, Tartaglia, che rimase libero e in uniforme fino al 30 aprile quando fu invitato a presentarsi ai Carabinieri per essere avviato a un campo di concentramento quale unico responsabile del reparto. Tutti i suoi uomini, muniti di validi lasciapassare, poterono raggiungere le loro famiglie.
Tartaglia aveva in precedenza compiuto un’audace missione al Sud, portata a compimento nonostante fosse rimasto seriamente ferito, guadagnandosi una Medaglia d’Argento (per motu proprio di Mussolini), una Croce di Ferro di 1 classe e una promozione per merito di Guerra.















Preghiera degli NP

Eterno, immenso Iddio, che creasti gli eterni spazi e ne misurasti le misteriose profondità, guarda a noi benigno paracadutisti, nuotatori e arditi d’Italia, che nell’adempimento del dovere, ci lanciamo nella vastità dei cieli, fendiamo gli sconfinati spazi dei mari e sfidiamo la morte nelle linee violate del nemico.
Manda gli angeli tuoi a nostri custodi.
Guida e proteggi l’ardimentoso volo, sostieni le nostre forze fra i flutti insidiosi del mare, rinsalda il nostro cuore nell’ora dell’audacia che decide della nostra vita.
La nostra giovane vita e tua, o Signore!
Se è scritto che cadiamo, sia, ma da ogni goccia del nostro sangue balzino gagliardi figli e fratelli innumeri orgogliosi del nostro passato; sempre degni del nostro immancabile avvenire.
Benedici, Signore, la nostra Patria, le famiglie, le nostre mamme, le spose e tutti i nostri cari.
Per loro nell’alba e nel tramonto, sempre la nostra vita!
E per noi, o Signore, il tuo glorificante sorriso.

E così sia