venerdì 12 dicembre 2014

PIU' BUIO CHE A MEZZANOTTE NON VIENE

NP





A TU PER TU CON AMICI E NEMICI.

Alba piovigginosa quella del 27 aprile 1945. verso le sei del mattino telefonammo al Collegio Navale di S. Elena dove si erano già concentrati gli NP che ci avevano preceduto seguendo la litoranea, nonché parte delle forze esistenti sul posto. Fu inviata una grossa barca a motore. Ci precedeva il sergente maggiore Luigi Marini seguito a breve distanza dal cugino Antonio: arrivati sul posto d’imbarco lo vedemmo trascinare via da alcuni uomini. Sulle sue tracce lanciammo due squadre di cinque NP, una comandata da Borgogelli, l’altra da ragazzi di Venezia, pratico dei luoghi. In lontananza dai tetti delle case, partirono colpi di fucile uno dei quali ferì a un piede Borgogelli che fu subito ricoverato in ospedale. Nel frattempo perdemmo di vista Marini (1) Collocammo i 20 prigionieri nel sottoponte e disponemmo gli uomini ai bordi della barca con il compito di tenere sotto tiro incrociato un piano di finestre per ciascun gruppo: ordine di sparare al minimo segno di sospetto. A prua e a poppa due fucili mitragliatori. Tutto andò per il meglio fino a Piazza S. Marco, dove vedemmo avvicinarsi un’altra barca a motore carica di comunisti, ben individuabili dai fazzoletti rossi che portavano al collo, i quali avevano creduto trattarsi di “compagni”. Gli NP si preparavano: il nostro silenzio e il fatto che nessuno rispondeva ai loro saluti li spaventarono e invertirono rapidamente la rotta.
A Piazzale Roma avevamo lasciato tutti i materiali esuberanti sotto la responsabilità di Ragazzi, con alcuni NP.
Sbarcati al Collegio navale di S. Elena fummo accolti entusiasticamente dagli amici che ci avevano preceduti, dal Capitano di Fregata Ferdinando Corsi e dal capitano di Corvetta Aldo Lenzi.
Nella stessa mattinata giunse anche il Comandante Buttazzoni e, insieme a Vercesi, venne deciso di continuare l’addestramento dei circa seicento tra NP, Lupo, Fulmine, Comando Marina e di un gruppo della X Mare che aveva sede su un’isola vicina. Vercesi assunse il comando degli uomini e Zarotti propose un’ufficiale responsabile per ogni settore: magazzino, spaccio, amministrazione, armeria. Rapido inventario delle scorte, che risultano abbondanti in ogni senso, ivi compresi i fondi di cassaforte. Era il 28 aprile 1945. Seicento uomini in mutandine e maglietta presentarono, a chi ci spiava dalle case vicine, uno spettacolo forse unico in Europa, ora che la guerra era finita. Inviammo in giro per la città ragazzi in borghese perché ci tenessero informati di quanto stava succedendo. Ci riferirono che la presenza del battaglione paracadutisti della Decima, così chiamava la gente, teneva ferme in tutta Venezia le velleità di disordini e proteggeva anche i reparti tedeschi. Quello stesso giorno alcuni partigiani, fatti audaci dalla nostra tranquilla indifferenza, piazzarono una mitragliatrice su un tetto vicino. Fu subito trasferita sul nostro terrazzo una mitragliera da 20 e il capopezzo, con il megafono, avvertì i dirimpettai che non doveva scappare un colpo nemmeno per errore. Nessun colpo scappò.
Due giorni prima del nostro arrivo il Comandante Lenzi aveva già avuto un contatto con l’Ammiraglio Franco Zanoni, il quale gli disse che a noi non rimaneva altra via che arrenderci. Lenzi gli aveva risposto che questa soluzione non era possibile:” Uno si arrende al nemico quando è in guerra con lui. Io non sono in guerra con voi né voi siete miei nemici. Io sono in guerra con gli Inglesi e gli americani. Solo a loro posso arrendermi”. Inutile dire cge questa impostazione corrispondeva alla realtà ed era condivisa da tutti noi. Forse erano possibili altre alternative di compromesso ma nessuna avrebbe garantito, una volta deposte le armi, non tanto il rispetto dei patti quanto la possibilità di raggiungere incolumi le nostre famiglie. Vercesi e Zarotti erano di questo parere, confortati da quello dei nostri uomini migliori e più intelligenti: prigionieri degli inglesi si sarebbero fati autotrasportare nell’Italia del sud ove avrebbero ripreso completa libertà di iniziativa, come in effetti avvenne. Di tutti quelli che seguirono la voce della ragione fu assicurata l’incolumità anche se, per molti, ciò significò un anno di dura prigionia. Il CNL farà tutto nei giorni successivi per convincere Lenzi e Butazzoni ad arrendersi prima dell’arrivo degli Alleati per potersi presentare loro come i liberatori di Venezia (in teoria in mano al CNL, in realtà in mano nostra).



















IL CNL INFRANGE I PATTI

Dopo vari incontri con ufficiali del SIM (Servizio Informazioni della Marina) Lenzi e Butazzoni si collegarono via telefono con il Comitato di Liberazione. Il CNL invitato a inviare un parlamentare, si rifiutò perché Piazzale Roma era ancora nelle mani degli uomini di Regazzi. Allora Butazzoni, in divisa e armato, salì su una gondola a motore pilotata da Carusci, in tenuta da gondoliere, e si presentò in prefettura. Qui incontrò vari esponenti della città, tra cui l’ammiraglio Zannoni e il maggiore Aurelio Molesini, fortemente allarmati per la situazione di piazzale Roma dove da un momento all’altro dovevano arrivare i carri armati e le truppe alleate. Ragazzi, incurante del pericolo personale, sparava a vista su chiunque tentasse di affacciarsi al piazzale ed era ben munito anche di panzerfaust anticarro (2). Butazzoni consegnò una sua nota firmata a Molesini con la quale ordinava a Regazzi di cessare il fuoco. Ragazzi obbedì.
In un primo momento chiese di aver libero il passo con tutti gli uomini per Trieste, in difesa della città che stava per essere occupata dai Titini nel C.L. ma nessuno aveva voglia né potere di assumersi questa responsabilità. Trattò la resa: tutti gli NP sarebbero stati lasciati liberi, muniti di un salvacondotto firmato dal C.L.N., mentre il solo Buttazzoni sarebbe rimasto a disposizione. Chiese che fossero inviati plenipotenziari in caserma per l’esecuzione dei particolari di resa e il verbale fu controfirmato da entrambe le parti.
Al rientro del nostro Comandante, Vercesi e Zarotti si dichiararono perplessi sulla consegna delle armi tanto più che alcuni NP avevano già deciso di consegnare solo le armi guaste e di nascondere quelle funzionanti. Il sergente Raffaele Peretti ci pose una domanda cui non sapemmo rispondere “i salvacondotti sono in grado di garantirci l’incolumità, sempre?”. Era già tutto pronto a Sant’Elena. Il giorno dopo entrarono in caserma in veste di plenipotenziari, il capitano dei Bersaglieri martinelli e il maggiore Molesini a cui consegnammo le chiavi dell’armeria dopo avergliela mostrata sracolma delle nostre armi guaste. Conclusa la parte formale degli accordi ci sedemmo a un tavolo avendo di fronte, Vercesi e io, i due del CLN: fu facile fraternizzare e suggellare il patto consegnando, io la ia pistola, Vercesi la sua (3). Con due ufficiali erano entrati in caserma un gruppo di carabinieri, una ventina di armati e un commissario di polizia. Nel pomeriggio le trattative erano concluse. L’ Ammiraglio Zannoni e alcuni membri del CNL giunsero a sant’Elena in motoscafo e i comandanti Lenzi e Butazzoni con tutti gli ufficiali andarono a riceverli al barcarizzo. L’ammiraglio teneva alla forma e la visita doveva essere il suggello definitivo dei patti.
Arrivò però la notizia che tutti gli accodi erano stati annullati per intervento di gruppi di partigiani comunisti i quali si erano imposti con la forza al C.N.L. Chiamammo a raccolta gli uomini che in un baleno, e senza armi, disarmarono i guardiani e, sullo slancio, si impadronirono di una mitragliatrice puntata su di noi al di là di un ponticello. Entrarono in caserma subito dopo i due rappresentanti del CNL, Martinelli e Molesini, molto depressi, che restituirono le pistole a Vercesi e Zarotti dichiarando da soldati d’onore, che si consegnavano a noi. Non ci restava che lasciare agli inglesi di farci da autisti nel trasferimento verso l’Italia centro-meridionale dove, tra l’altro avevamo non pochi amici.
Per Venezia era corsa come un fulmine la notizia che i parà della Decima erano in mar ia su piazza S. Marco “per fare poltiglia dei comunisti” ; azione che non entrava minimamente nelle nostre intenzioni. Cessò di colpo, però il ronzare delle barche con fazzoletti rossi; sfilarono invece motozattere tedesche per andare ad autoaffondarsi sparando traccianti bianco-rosse-verdi.
Il 2 maggio un ufficiale, un sottufficiale e alcuni soldati inglesi entrarono con molta discrezione e ci dichiararono loro prigionieri di guerra aggiungendo che, per il valore dimostrato combattendo, ci veniva concesso l’onore delle armi e la facoltà di conservare armi e sentinelle fino al trasferimento. Erano nel reggimento Qeen’s e la prima impressione non lusinghiera che avevamo fu cancellata quando apprendemmo che erano specificatamente informati di tutto ciò che ci riguardava.


ABBRACI CON GLI NP DEL SUD

Il giorno successivo Zarotti stava discutendo con il comandante Lenzi quando, da dietro, si sentì sollevare di peso e piroettare in giro per la stanza al grido di “Abbiamo finalmente catturato un vecchio pirata di Tarquinia. Ora staneremo gli altri”. Stesso comportamento con gli altri ufficiali presenti e grande festa corale soprattutto quando entrò il comandante Nino Butazzoni. I nuovi venuti erano NP del S. Marco (del sud) che avevano risalito la penisola combattendo con gli alleati. Dovevano ripartire subito e noi avremmo voluto andare a difendere Trieste con loro: Sogni ovviamente (4) . Tuttavia ciò che rendeva meno pesante quell’ora era la dimostrazione dell’amicizia fraterna sopravvissuta a tutte le traversie.
Avevamo già provveduto a pagare ai presenti tre mensilità di stipendio, come premio di smobilitazione, non dimenticando nessuno dei feriti o dei giacenti in vari ospedali. Poi rifornimmo tutti gli uomini di indumenti, sigarette e scatolette di viveri: anche in questo caso fino ad esaurimento delle scorte. Ai molti uomini che ci chiesero di essere lasciati liberi, dopo aver valutato la situazione di ciascuno demmo l’autorizzazione solo a quelli che avevano rifugi sicuri. Altri, non direttamente appartenenti al nostro reparto, se ne andarono di loro iniziativa ma molti, purtroppo, perdettero la vita.







CON L’ONORE DELLE ARMI

Dall’ ufficiale che accolse la nostra resa (5) apprendemmo che alcuni giorni prima gli altri battaglioni del nostro gruppo si erano arresi a Padova con l’onore delle armi tributato in modo solenne. Il comunicato delle ore 01 del 29 Aprile 1945 letto da un’ufficiale britannico diceva.”Anch’io ho conosciuto come voi il dolore della sconfitta e delle prigionia quando a Tobruk, un giorno felice per le vostre armi, dovetti arrendermi con la mia compagnia a soldati valorosi come voi, quanto voi. Tra questi soldati vi erano anche marinai del S. Marco. In nome di Sua Maestà britannica concedo al 1° Gruppo di combattimento della X MAS l’onore delle armi”. Il Gruppo estremo omaggio al valore sfortunato, poté conservare le armi per l’intera notte e i giorni seguenti.
Il giorno successivo all’arrivo degli inglesi fu d’obbligo preparare le cerimonia dell’ammaina bandiera. Fu d’obbligo perché avremmo voluto ritardarla ancora: a soldati di una lunga milizia dura ed onorevole è questa la cerimonia più amara che possa toccare.
Schierati in un perfetto ordine, dopo un breve discorso del Comandante Buttazzoni, si procedette ad ammainare la bandiera della RSI; intensa e palpabile la commozione. Il commissario di polizia, turbato, volle stringere la mano al Comandante ponendosi a sua disposizione. La bandiera fu fatta a pezzi e distribuita a tutti: molti conservano ancora quello struggente ricordo.
Le disposizioni dei vincitori furono le seguenti:
  • trasferimento di tutti gli NP in Algeria (le truppe speciali come le nostre costituivano una seria preoccupazione per tutti)
  • il solo comandante Buttazzoni doveva restare a disposizione dei servizi militari alleati.
  • Buttazzoni, venne trattenuto a Venezia dopo la nostra partenza per la prigionia, subì vari interrogatori dai servizi segreti inglesi e americani. Gli NP del S. Marco del Sud cercarono di convincerlo a fuggire: avrebbero preparato e facilitato la fuga. Buttazzoni rifiutò con fermezza desiderando seguire il destino dei suoi uomini. Da Venezia fu portato prima a Mestre, poi a Rimini e quindi alle Torrette di Ancona:in quest’ultimo campo di concentramento trovò Lenzi, Ceccacci, Fraschini e diversi altri.
In campo di concentramento noi NP fummo considerati, come truppe speciali, “recalcitrans” e tenuti spesso separati dagli altri e controllati più rigorosamente.




VUAGGIO VERSO LA PRIGIONIA

Zarotti, incluso tra quelli trasferiti, evitò la lunga traversia degli interrogatori e forse, ebbe modo di essere scagionato recisamente e definitivamente.
Mai il nostro Comandante venne meno alla fiera e dignitosa regola militare: pose sempre la propria vita a garanzia di tutti i suoi atti e di quelli dei suoi NP i quali, a loro volta, non furono da meno. Per il suo comportamento si guadagnò ammirazione e solidarietà: assai più degli americani che degli inglesi. Dal campo di concentramento di Torrette (Ancona) fuggi rocambolescamente nel settembre nel settembre 1945.
Noi tutti, imbarcanti su vaporetti a avviati verso piazzale Roma sotto la scorta di pochi soldati inglesi, avemmo modo di far conoscere ai Veneziani, chissà con quale sollievo per i comunisti, che stavamo andandocene: chi ci salutava col pugno chiuso riceveva insulti. Comportamento opposto quando qualche persona, specie in gramaglie, ci salutava con gesti affettuosi. Perché non ci fossero dubbi sulla nostra identità, tutti ripetemmo lungo il percorso il ritornello della canzone “Decima flottiglia nostra che beffasti l’Inghilterra” e rispondendo, ad ogni “DECIMA MARINAI!” lanciato da Alvisi, con un formidabile “DECIMA COMANDANTE”!”. Venezia, affollata da una ressa quanto mai cosmopolita e variopinta, ci ascoltava e guardava stupita. Quando, vicino a piazzale Roma, passò sotto bordo una barca da competizione e gli occupanti ci salutarono col pugno chiuso, i ragazzi senza esitazione si privarono di molte scatolette e la barca si rifugiò in un rio laterale. Al momento dello sbarco un mostriciattolo trentenne, una specie di Tersite redevivo, ci accolse con voce stridula e la frase “impiccateli corda e savon” ecc. spalleggiato da altri; un ceffone di un nostro ragazzo ristabilì silenzio e rispetto.
Caricati su una lunga colonna di automezzi, insieme a tutti gli altri prigionieri concentrati a Mestre, il giorno dopo partimmo per Forlì che attraversammo tra due file di folla inferocita urlante minacce di “ A MORTE!” ; “A MORTE!” , che salivano ad ondate sempre più violente. La spiegazione venne quando ci accorgemmo che sul telone di testa era salito il sergente Montini, bolognese, che provocava la folla con insulti di straordinaria potenza.
Appena arrivati ad Ancona subimmo la prima razionale perquisizione, con sottrazione di alcuni di quegli oggetti di valore che alcuni di noi, ingenui, non avevano pensato di nascondere. Poi partimmo in treno per Afragola (Napoli) dove ci riunimmo con il grosso del gruppo di combattimento, cioè Barbarigo, Lupo Colleoni e Freccia.
Trattamento duro sempre. Pochi viveri, poca acqua, molte angherie. Coricarsi sul terreno duro e, in viaggio, lo sfibrante passar la notte in 40 per vagone: impossibile stendersi tutti contemporaneamente (in tutti gli eserciti si sa bene quanto più contino 8 cavalli che non 40 uomini).
Quando ripartimmo da Afragola per Taranto, nell’attraversare il paese con la popolazione che inveiva urlando insulti e minacce, agli inglesi questa volta, qualificati “carnefici di questi poveri figli”, Vercesi, Palomba, Alvisi, e decine di altri furono trascinati a viva forza dentro ai portoni e aiutati a fuggire. Prima di arrivare a Taranto l’ultima beffa fu quella di sganciare il vagone di coda, i cui occupanti, usciti sulla massicciata, ci salutarono gridando Decima e sventolando i fazzoletti.
Ci imbarcammo a Taranto la terza decade di Maggio. Durante la traversata passammo il tempo con un nuovo diversivo: arruolare soldati negri, e non soltanto negri, nel nostro futuro esercito promettendo il doppio del soldo inglese e americano.



  1. Luigi Marini fu in seguito liberato in occasione di uno scambio di prigionieri.

  1. Non avevamo colto l’importanza strategica dell’autorimessa di piazzale Roma: bloccare i carri armati sul ponte di Mestre e impedire l’entrata degli alleati a Venezia avrebbe avuto risonanza mondiale e coronato degnamente la nostra vicenda: Tutto il mondo “liberato”, meno Venezia. E, questo, ad opera degli NP della X Mas.

  1. Due anni dopo Zarotti si incontrò con Martinelli in piazza de Duomo a Milano: si abbracciarono e Martinelli dichiarò di slancio che mai avrebbe pensato di rimpiangere così intensamente di non aver seguito la nostra stessa strada.

  1. Si trattava degli NP del sud, tenente medico Athos Francesconi, tenebti Achille Ambrosi e Angelo Garrone, con il gruppo dei Marò al comando del Ten. Ezio Tartaglia, diretti al fronte quali nostri complimenti. Prima di potersi collegare al Btg. Tartaglia si trovò costretto a porre il suo comando a Cà Tiepolo. In quel momento due gruppi di NP del Nord e il gruppo di NP del Sud (al comando di Ambrosi) si trovavano a non molta distanza fra loro ma, in pratico, impossibilitati a congiungersi.
Attraverso il Po di Goro (il ponte era crollato), Ambrosi giunse a contatto vocale con il gruppo Tartaglia e ne chiese la resa. Tartaglia obiettò che, anche volendo, non avrebbe potuto arrendersi a chi, giuridicamente, non era suo nemico; al che Ambrosi, in attesa che la situazione si chiarisse, si ritirò momentaneamente dopo aver scambiato con Tartaglia un corretto saluto militare di congedo.
Nel frattempo, ormai sopravanzato dal nemico e perciò tagliato fuori dalla lotta, Tartaglia si era asserragliato nel fabbricato del Consorzio Agrario di Cà Tiepolo; così, mentre il Btg. NP stava raggiungendo Venezia dopo una lunga serie di combattimenttùi, egli si trovò a dover trattare con il CNL del luogo. Fece presente che, essendo un militare, non poteva dar credito e udienza a civili; nondimeno, informato che la popolazione aveva urgente bisogno di farina, fece portar fuori quanto richiesto. Venne in tal modo a stabilirsi un insolito rapporto di amicizia mentre sul Consorzio continuava a sventolare la bandiera della RSI unitamente al gagliardetto della X MAS. Il giorno successivo gli uomini di Ambrosi, preceduti da un tenente inglese di collegamento, concessero l’onore delle armi al gruppetto di NP e al loro comandante, Tartaglia, che rimase libero e in uniforme fino al 30 aprile quando fu invitato a presentarsi ai Carabinieri per essere avviato a un campo di concentramento quale unico responsabile del reparto. Tutti i suoi uomini, muniti di validi lasciapassare, poterono raggiungere le loro famiglie.
Tartaglia aveva in precedenza compiuto un’audace missione al Sud, portata a compimento nonostante fosse rimasto seriamente ferito, guadagnandosi una Medaglia d’Argento (per motu proprio di Mussolini), una Croce di Ferro di 1 classe e una promozione per merito di Guerra.















Preghiera degli NP

Eterno, immenso Iddio, che creasti gli eterni spazi e ne misurasti le misteriose profondità, guarda a noi benigno paracadutisti, nuotatori e arditi d’Italia, che nell’adempimento del dovere, ci lanciamo nella vastità dei cieli, fendiamo gli sconfinati spazi dei mari e sfidiamo la morte nelle linee violate del nemico.
Manda gli angeli tuoi a nostri custodi.
Guida e proteggi l’ardimentoso volo, sostieni le nostre forze fra i flutti insidiosi del mare, rinsalda il nostro cuore nell’ora dell’audacia che decide della nostra vita.
La nostra giovane vita e tua, o Signore!
Se è scritto che cadiamo, sia, ma da ogni goccia del nostro sangue balzino gagliardi figli e fratelli innumeri orgogliosi del nostro passato; sempre degni del nostro immancabile avvenire.
Benedici, Signore, la nostra Patria, le famiglie, le nostre mamme, le spose e tutti i nostri cari.
Per loro nell’alba e nel tramonto, sempre la nostra vita!
E per noi, o Signore, il tuo glorificante sorriso.

E così sia




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