lunedì 29 dicembre 2014

CONFINE ORIENTALE E PULIZIA ETNICA





Oggi parliamo delle Terre della frontiera orientale italiana: la Venezia Giulia con Gorizia, Trieste, l’Istria e Pola; Fiume ed il suo territorio; la Dalmazia, con le Isole, Zara, Spalato, Ragusa, Sebenico, Traù e le città minori.

Ma distogliamo per breve tempo lo sguardo dalle nostre Terre, dove la pulizia etnica iniziata nel 1943 fece varie migliaia di morti fra italiani, ed esaminiamo a più ampio raggio quale fu il comportamento della potenza sovietica nell’intera Europa, ancor prima dello scoppio della seconda guerra mondiale.

A tale proposito vi leggo testualmente uno scritto del Professor Arnaldo Mauri, professore emerito e già decano della Facoltà di Economia dell’Università Statale di Milano(1)

Innanzitutto sottolineo che gli eccidi a cui faccio riferimento non riferiscono al 1945, anno in cui sarebbero stati “giustificati” dall’università dell’URSS da parte dei nazisti e dai milioni di morti che ne sono seguiti, nel corso della guerra.
Mi riferiscono invece al periodo 1939-1940 per spiegare che si tratta di stragi compiute a freddo in base ad un disegno politico criminale ma chiaro: la snazionalizzazione di territori occupati e l’eliminazione in anticipo di potenziali avversari o resistenti. Specifico che non si è neppure trattato di rappresaglie come alle Fosse Ardeatine o a Marzabotto perché allora non era ancora iniziata nessuna forma di resistenza contro gli occupanti sovietici.
Questi fatti seguono il Patto di Mosca (tra Stalin e Hitler per la spartizione dell’Europa centro-orientale) del 1939, che precede di alcuni giorni l’invasione della Polonia prima da ovest da parte della Germania poi da est dall’URSS.
In seguito l’URSS invase anche Lituania, Estonia e Lettonia, poi Finlandia che si oppose con coraggio all’invasione sovietica e infine alla Romania che accettò invece l’ultimatum sovietico e cedette all’URSS circa il 20% del territorio nazionale (la Bucovina Settentrionale, la Bessarabia e il terrtorio di Hertza, già in parte della Romania ante prima guerra mondiale). Da notare che la Romania, paese filo-occidentale, aveva i confini garantiti da Francia e Inghilterra e quindi l’invasione avvenne dopo il crollo della Francia.
Sono totalmente fuori da questo discorso invece Austria, Ungheria, Ceco-Slovacchia, Bulgaria e resto della Romania che furono occupate dall’Armata rossa nel 1945, e quindi le stragi avvennero in epoca successiva.
In tutti i territori occupati ed annessi dall’URSS dal 1939 in poi, ma prima dell’invasione nazista dell’URSS e quindi in pieno accordo con gli amici nazisti (ci sono foto e filmati che testimoniano l’incntro e il tripudio di ufficiali sovietici e nazisti che brindano alla vittoria contro la Polonia; Parata militare congiunta di Brest Litovsk, 1939), vennero nel giro di qualche settimana o di qualche mese arrestate centinaia di migliaia dio persone considerate potenziali nemici dell’URSS. Si trattava di militari (soprattutto ufficiali), pubblici dipendenti, insegnanti, intellettuali, professionisti, sacerdoti, proprietari fondiari, imprenditori, impiegati bancari.
Destinazione degli arrestati erano i gulag siberiani da cui molti non sarebbero mai tornati.
In verità per una parte degli arrestati il viaggio fu molto breve. Vennero subito abbattuti a migliaia con il classico colpo alla nuca. In seguito, dopo l’avanzata tedesca, vennero trovate fosse comuni un po’ dappertutto. Sono note (ma sono solo uno dei ritrovamenti) le fosse di Katyn dove vennero trucidati a freddo migliaia di militari polacchi che si erano consegnati ai sovietici per sfuggire alla cattura da parte dei tedeschi.
Anche a migliaia di romeni, che pur avevano accettato senza resistenza l’occupazione sovietica finirono nelle fosse comuni colpevoli solo di figurare nelle liste delle persone potenzialmente anti-sovietiche. In Romania è ricordata con dolore la strage di Fantana Alba (Fontana Bianca) in Bucovina. Numerose famiglie di contadini con donne e bambini in fuga con le masserizie e le icone verso il nuovo confine vennero intercettati dai sovietici e massacrate senza pietà. I feriti, anche i bambini, vennero finiti a colpi di baionetta.
Tutte queste notizie sono reperibili su internet anche in lingua italiana (Wikipedia).
La Parata sovietico-nazista di Brest Litovsk è reperibile nella versione polacca.

Terminata questa lettura, vi rammento, la creazione degli stati-satelliti dell’URSS, dopo il 1945, ciascuno retto da governi eletti con elezioni non democratiche, in Bulgaria, Romania, Germania dell’Est, Polonia, Albania. Vi rammento in particolare l’Ungheria, cui sono legato da particolari ricordi, con la sua rivoluzione del 1956, stroncata nel sangue dalle truppe sovietiche. Vi rammento la Ceco-Slovacchia, con la sollevazione del 1971, Jan Palak che si brucia in piazza, la repressione nel sangue operata dalle truppe sovietiche. Vi rammento la stessa Jugoslavia, che venne espulsa dal Cominform nel 1948, perché si discostava dalle direttive dell’URSS, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
Passiamo ora a parlare, io e gli altri esuli presenti, dell’esodo giuliano-dalmata, dalle nostre Terre, sciaguratamente cedute alla Jugoslavia dalle potenze Alleate.
Quale testimone dell’esodo, preciso che sono nato a Pola nella notte del 5 ottobre 1943, la stessa notte in cui Norma Cossetto, Medaglia d’Oro al Valor Civile alla Memoria, finiva la sua vita, dopo orrende sevizie, gettata dai partigiani nella foiba di Villa Surani in Istria.
Sono partito con i miei genitori il 2 febbraio 1947, quindi all’età di tre anni e mezzo ed i miei ricordi diretti sono l’Arena di Pola, una spiaggia presso la tragica Vergallona ed i terribili fischi di addio alla città della sirena della piccola nave “Pola”.
Perché partì la stragrande maggioranza della popolazione di Pola? Sostanzialmente per la paura generata dalle notizie di sparizioni di persone e dai successivi ritrovamenti di cadaveri nelle profondità delle foibe, di alcuni pozzi di miniera e di cave di bauxite, che si erano avuti nel 1943 e nuovamente ed in maggior misura nel 1945-1946; inoltre e soprattutto, per la certezza di un’invasione di popoli stranieri e del dominio di un regime che negava i diritti elementari dei cittadini, la libertà di pensiero, la proprietà privata, la religione, qualunque essa fosse.
Vi fu un evento che, nel caso di Pola, convinse la popolazione che avrebbe dovuto partire in massa, nel caso dell’assegnazione della città alla Jugoslavia, caso che era ancora in dubbio nella prima metà del 1946.
Vergarolla è una località che si affaccia all’interno del vasto porto di Pola.
A guerra finita, il 18 agosto 1946, un emissario della polizia segreta jugoslava del maresciallo Tito, l’ OZNA, provocò l’esplosione di 29 mine marine, contenenti circa 9 tonnellate di tritolo, che erano state tirate in secca e disattivate da artificieri inglesi delle truppe di occupazione. L’esplosione fu provocata al culmine di una manifestazione sportiva e di italianità , organizzata dalla Società Nautica Pietas Julia, mentre sulla spiaggia si trovavano centinaia di polesani, tra i quali moltissimi giovani e bambini. Si contarono 109 bare ed una cassa di resti, mentre le vittime identificate con nome e cognome furono 64 o 67, secondo le fonti.
Dopo le vicissitudini di viaggi verso l’ignoto e di alloggi di fortuna (noi tre riuscimmo ad evitare la permanenza nei campi profughi) ho avuto sulla mia pelle e davanti ai miei occhi, per tutta la vita, gli effetti dell’esodo, che ci privò di ogni avere e sconvolse la vita dei miei genitori e familiari per lunghi anni, fino a quando tutti riuscirono a ricostruirsi una vita, quelli che sopravvissero. E poi? E ora? Vi ricordo che noi esuli ancora attendiamo, dopo 64 anni, il risarcimento di tutti i nostri beni immobili, abbandonati alla partenza per l’esilio, e che tuttora in qualsiasi ufficio pubblico possiamo trovarci davanti ad un computer non aggiornato secondo legge, che rifiuta i nostri documenti per pratiche importantissime oppure banali ma senza fine, portano la colpa tutti gli innumerevoli governi che si sono avvicendati dal 1947 ad oggi.
Alcuni documenti personali:

Documento n. 1: è la “Dichiarazione di volontà di esodo in Italia” compilato a Pola, l’11 luglio 1946 con il nome di mia madre per lei e per i famigliari, dalla Camera Confederale del Lavoro. Si dichiara “…la volontà di esodo in Italia, nel deprecato caso che la città venga ingiustamente assegnata alla Jugoslavia”. Osserviamo la data, è importante: mancano ancora 38 giorni alla strage di Vergarolla, ma già almeno 5476 famiglie (è il numero del documento) hanno già deciso. Nel corso del 1946 il Governo Italiano a Alcide De Gasperi stesso insistessero con le autorità e la popolazione di Pola affinché non partissero, senza che vi fosse la percezione di cosa comportava tale assurda richiesta e di quali maggiori sofferenze avrebbe comportato il lunghissimo ritardo nell’organizzazione dell’esodo.

Documento n. 2 : è il “Certificato di Profugo” rilasciato a Pola il 03 gennaio 1947, cioè 30 giorni prima della partenza, a nome di mio padre, mia madre e mio; il mio nome Tito, in quei giorni e per molti anni ancora impronunciabile come una bestemmia, viene storpiato, dall’impiegato, in Vito. L’ente amittente è, paradossalmente, il C.L.N., che si è trasformato tristemente nel Comitato per l’esodo, nel Comitato per la auto-distruzione della città.
E’ un bel tragico destino che chi intendeva liberare le nostre Terre dal nazi-fascismo debba collaborare per fuga dei cittadini dalle mani dell’alleato, che ha preso il sopravvento e si dimostra un nemico peggiore di quello appena sconfitto.

Documento n. 3: è la “Qualifica del profugo”, documento molto importante dal punto di vista ufficiale, perché determina una “qualifica”, con vantaggi e svantaggi. Vi è chi la rifiuta, ritenendola un “marchio d’infamia”. Questo esemplare, intestato a mio padre, viene emesso dalla Prefettura di Milano in data 08 gennaio 1949, essendoci stabiliti a Milano sin dal settembre 1947.

Documento n.4:è un altro documento fondamentale, la “Opzione per la cittadinanza italiana” espressa “solennemente” da mio padre per se stesso e per me; un documento analogo esiste per mia madre. Secondo i termini del Trattato di Pace firmato dall’Italia il 10 febbraio 1947, i cittadini dei “territori ceduti” hanno il diritto di esprimere la loro scelta, la loro “opzione” per la cittadinanza italiana oppure quella jugoslava ed il Governo Jugoslavo ha il potere di accettare tale scelta oppure rifiutarla, in determinati casi. Il documento viene presentato al Consolato Generale della Jugoslavia a Milano, il 24 giugno 1948.

Documento n. 5: è l’accoglimento della “opzione” da parte del Governo Jugoslavo datato 07 agosto 1953, cioè ben 5 anni dopo “opzione” stessa. La comunicazione, trasmessa dal Comune di Milano, è datata 26 ottobre 1953.

Documento n.6 : mostra alcuni dati sull’esodo giuliano-dalmata dopo la seconda guerra mondiale:partono fra l’80 ed il 94% degli abitanti; rimangono le persone che hanno una convinzione ideologica favorevole al regime comunista jugoslavo, le persone trattenute perché ritenute indispensabili al funzionamento di servizi essenziali, i prigionieri, i vecchi senza famiglia, gli ammalati senza famiglia, alcuni contadini che non ritengono giusto di abbandonare il bestiame e la terra.

Documento n.7 : è il “Manifesto dei partigiani italiani di Pola”, documento di altissima drammaticità pubblicato nel 1947: è il saluto disperato dei partigiani di sentimenti italiani, in partenza come esuli ed insieme con tutti gli altri esuli, ai loro compagni di lotta di sentimenti slavi o “internazionalisti”, che rimangono sul territorio il quale, appena liberato dal giogo tedesco-nazista, è passato immediatamente al giogo jugoslavo-comunista.
In questo documento i partigiani italiani ricordano le tragedie di una lotta sanguinosa condotta insieme, la speranza di aver ottenuto una liberazione, la disillusione più profonda per l’avvenuto tradimento degli ideali di libertà e di democrazia per i quali avevano combattuto insieme con i partigiani jugoslavi.

Documento n.8: è un altro documento pubblicato nel 1947. La pagina intitolata “Maria Pasquinelli” ricorda l’assassinio del Generale di Brigata Robert (Robin) de Winton, alla cui memoria tutti noi esuli ci inchiniamo, avvenuto a Pola il 10 febbraio 1947, giorno della firma del cosiddetto Trattato di Pace di Parigi, per mano dell’insegnate bergamasca Mariua Pasquinelli. Ella intende, con il suo atto esecrato, richiamare l’attenzione del mondo sull’ingiustizia che le grandi potenze vincitrici compiono nell’assegnare alla Jugoslavia città e territori che sono italici dagli albori della storia e poi italiani di lingua, cultura e tradizioni. Maria Pasquinelli lascia uno scritto in cui spiega il suo gesto, ritenendo di rimanere uccisa nel corso dell’attentato e di dannare la propria anima come omicida e come suicida. Invece la scorta del Generale de Winton, che è disarmata, può non ucciderla ma arrestarla; viene processata e condannata a morte, con pena che verrà successivamente commutata in carcere a vita; dopo 18 anni di carcere, la Regina Elisabetta II di Inghilterra, che noi esuli ringraziamo, consentirà che possa tornare in libertà; passerà lunghi anni in convento. Oggi 5 maggio 2011 Maria continua a scontare la sua pena, in vita, in una casa per infermi a Bergamo.


Documento n. 9 :” POLA, ADDIO”- il cartello che comparve a Pola nei giorni dell’esodo

venerdì 12 dicembre 2014

PIU' BUIO CHE A MEZZANOTTE NON VIENE

NP





A TU PER TU CON AMICI E NEMICI.

Alba piovigginosa quella del 27 aprile 1945. verso le sei del mattino telefonammo al Collegio Navale di S. Elena dove si erano già concentrati gli NP che ci avevano preceduto seguendo la litoranea, nonché parte delle forze esistenti sul posto. Fu inviata una grossa barca a motore. Ci precedeva il sergente maggiore Luigi Marini seguito a breve distanza dal cugino Antonio: arrivati sul posto d’imbarco lo vedemmo trascinare via da alcuni uomini. Sulle sue tracce lanciammo due squadre di cinque NP, una comandata da Borgogelli, l’altra da ragazzi di Venezia, pratico dei luoghi. In lontananza dai tetti delle case, partirono colpi di fucile uno dei quali ferì a un piede Borgogelli che fu subito ricoverato in ospedale. Nel frattempo perdemmo di vista Marini (1) Collocammo i 20 prigionieri nel sottoponte e disponemmo gli uomini ai bordi della barca con il compito di tenere sotto tiro incrociato un piano di finestre per ciascun gruppo: ordine di sparare al minimo segno di sospetto. A prua e a poppa due fucili mitragliatori. Tutto andò per il meglio fino a Piazza S. Marco, dove vedemmo avvicinarsi un’altra barca a motore carica di comunisti, ben individuabili dai fazzoletti rossi che portavano al collo, i quali avevano creduto trattarsi di “compagni”. Gli NP si preparavano: il nostro silenzio e il fatto che nessuno rispondeva ai loro saluti li spaventarono e invertirono rapidamente la rotta.
A Piazzale Roma avevamo lasciato tutti i materiali esuberanti sotto la responsabilità di Ragazzi, con alcuni NP.
Sbarcati al Collegio navale di S. Elena fummo accolti entusiasticamente dagli amici che ci avevano preceduti, dal Capitano di Fregata Ferdinando Corsi e dal capitano di Corvetta Aldo Lenzi.
Nella stessa mattinata giunse anche il Comandante Buttazzoni e, insieme a Vercesi, venne deciso di continuare l’addestramento dei circa seicento tra NP, Lupo, Fulmine, Comando Marina e di un gruppo della X Mare che aveva sede su un’isola vicina. Vercesi assunse il comando degli uomini e Zarotti propose un’ufficiale responsabile per ogni settore: magazzino, spaccio, amministrazione, armeria. Rapido inventario delle scorte, che risultano abbondanti in ogni senso, ivi compresi i fondi di cassaforte. Era il 28 aprile 1945. Seicento uomini in mutandine e maglietta presentarono, a chi ci spiava dalle case vicine, uno spettacolo forse unico in Europa, ora che la guerra era finita. Inviammo in giro per la città ragazzi in borghese perché ci tenessero informati di quanto stava succedendo. Ci riferirono che la presenza del battaglione paracadutisti della Decima, così chiamava la gente, teneva ferme in tutta Venezia le velleità di disordini e proteggeva anche i reparti tedeschi. Quello stesso giorno alcuni partigiani, fatti audaci dalla nostra tranquilla indifferenza, piazzarono una mitragliatrice su un tetto vicino. Fu subito trasferita sul nostro terrazzo una mitragliera da 20 e il capopezzo, con il megafono, avvertì i dirimpettai che non doveva scappare un colpo nemmeno per errore. Nessun colpo scappò.
Due giorni prima del nostro arrivo il Comandante Lenzi aveva già avuto un contatto con l’Ammiraglio Franco Zanoni, il quale gli disse che a noi non rimaneva altra via che arrenderci. Lenzi gli aveva risposto che questa soluzione non era possibile:” Uno si arrende al nemico quando è in guerra con lui. Io non sono in guerra con voi né voi siete miei nemici. Io sono in guerra con gli Inglesi e gli americani. Solo a loro posso arrendermi”. Inutile dire cge questa impostazione corrispondeva alla realtà ed era condivisa da tutti noi. Forse erano possibili altre alternative di compromesso ma nessuna avrebbe garantito, una volta deposte le armi, non tanto il rispetto dei patti quanto la possibilità di raggiungere incolumi le nostre famiglie. Vercesi e Zarotti erano di questo parere, confortati da quello dei nostri uomini migliori e più intelligenti: prigionieri degli inglesi si sarebbero fati autotrasportare nell’Italia del sud ove avrebbero ripreso completa libertà di iniziativa, come in effetti avvenne. Di tutti quelli che seguirono la voce della ragione fu assicurata l’incolumità anche se, per molti, ciò significò un anno di dura prigionia. Il CNL farà tutto nei giorni successivi per convincere Lenzi e Butazzoni ad arrendersi prima dell’arrivo degli Alleati per potersi presentare loro come i liberatori di Venezia (in teoria in mano al CNL, in realtà in mano nostra).



















IL CNL INFRANGE I PATTI

Dopo vari incontri con ufficiali del SIM (Servizio Informazioni della Marina) Lenzi e Butazzoni si collegarono via telefono con il Comitato di Liberazione. Il CNL invitato a inviare un parlamentare, si rifiutò perché Piazzale Roma era ancora nelle mani degli uomini di Regazzi. Allora Butazzoni, in divisa e armato, salì su una gondola a motore pilotata da Carusci, in tenuta da gondoliere, e si presentò in prefettura. Qui incontrò vari esponenti della città, tra cui l’ammiraglio Zannoni e il maggiore Aurelio Molesini, fortemente allarmati per la situazione di piazzale Roma dove da un momento all’altro dovevano arrivare i carri armati e le truppe alleate. Ragazzi, incurante del pericolo personale, sparava a vista su chiunque tentasse di affacciarsi al piazzale ed era ben munito anche di panzerfaust anticarro (2). Butazzoni consegnò una sua nota firmata a Molesini con la quale ordinava a Regazzi di cessare il fuoco. Ragazzi obbedì.
In un primo momento chiese di aver libero il passo con tutti gli uomini per Trieste, in difesa della città che stava per essere occupata dai Titini nel C.L. ma nessuno aveva voglia né potere di assumersi questa responsabilità. Trattò la resa: tutti gli NP sarebbero stati lasciati liberi, muniti di un salvacondotto firmato dal C.L.N., mentre il solo Buttazzoni sarebbe rimasto a disposizione. Chiese che fossero inviati plenipotenziari in caserma per l’esecuzione dei particolari di resa e il verbale fu controfirmato da entrambe le parti.
Al rientro del nostro Comandante, Vercesi e Zarotti si dichiararono perplessi sulla consegna delle armi tanto più che alcuni NP avevano già deciso di consegnare solo le armi guaste e di nascondere quelle funzionanti. Il sergente Raffaele Peretti ci pose una domanda cui non sapemmo rispondere “i salvacondotti sono in grado di garantirci l’incolumità, sempre?”. Era già tutto pronto a Sant’Elena. Il giorno dopo entrarono in caserma in veste di plenipotenziari, il capitano dei Bersaglieri martinelli e il maggiore Molesini a cui consegnammo le chiavi dell’armeria dopo avergliela mostrata sracolma delle nostre armi guaste. Conclusa la parte formale degli accordi ci sedemmo a un tavolo avendo di fronte, Vercesi e io, i due del CLN: fu facile fraternizzare e suggellare il patto consegnando, io la ia pistola, Vercesi la sua (3). Con due ufficiali erano entrati in caserma un gruppo di carabinieri, una ventina di armati e un commissario di polizia. Nel pomeriggio le trattative erano concluse. L’ Ammiraglio Zannoni e alcuni membri del CNL giunsero a sant’Elena in motoscafo e i comandanti Lenzi e Butazzoni con tutti gli ufficiali andarono a riceverli al barcarizzo. L’ammiraglio teneva alla forma e la visita doveva essere il suggello definitivo dei patti.
Arrivò però la notizia che tutti gli accodi erano stati annullati per intervento di gruppi di partigiani comunisti i quali si erano imposti con la forza al C.N.L. Chiamammo a raccolta gli uomini che in un baleno, e senza armi, disarmarono i guardiani e, sullo slancio, si impadronirono di una mitragliatrice puntata su di noi al di là di un ponticello. Entrarono in caserma subito dopo i due rappresentanti del CNL, Martinelli e Molesini, molto depressi, che restituirono le pistole a Vercesi e Zarotti dichiarando da soldati d’onore, che si consegnavano a noi. Non ci restava che lasciare agli inglesi di farci da autisti nel trasferimento verso l’Italia centro-meridionale dove, tra l’altro avevamo non pochi amici.
Per Venezia era corsa come un fulmine la notizia che i parà della Decima erano in mar ia su piazza S. Marco “per fare poltiglia dei comunisti” ; azione che non entrava minimamente nelle nostre intenzioni. Cessò di colpo, però il ronzare delle barche con fazzoletti rossi; sfilarono invece motozattere tedesche per andare ad autoaffondarsi sparando traccianti bianco-rosse-verdi.
Il 2 maggio un ufficiale, un sottufficiale e alcuni soldati inglesi entrarono con molta discrezione e ci dichiararono loro prigionieri di guerra aggiungendo che, per il valore dimostrato combattendo, ci veniva concesso l’onore delle armi e la facoltà di conservare armi e sentinelle fino al trasferimento. Erano nel reggimento Qeen’s e la prima impressione non lusinghiera che avevamo fu cancellata quando apprendemmo che erano specificatamente informati di tutto ciò che ci riguardava.


ABBRACI CON GLI NP DEL SUD

Il giorno successivo Zarotti stava discutendo con il comandante Lenzi quando, da dietro, si sentì sollevare di peso e piroettare in giro per la stanza al grido di “Abbiamo finalmente catturato un vecchio pirata di Tarquinia. Ora staneremo gli altri”. Stesso comportamento con gli altri ufficiali presenti e grande festa corale soprattutto quando entrò il comandante Nino Butazzoni. I nuovi venuti erano NP del S. Marco (del sud) che avevano risalito la penisola combattendo con gli alleati. Dovevano ripartire subito e noi avremmo voluto andare a difendere Trieste con loro: Sogni ovviamente (4) . Tuttavia ciò che rendeva meno pesante quell’ora era la dimostrazione dell’amicizia fraterna sopravvissuta a tutte le traversie.
Avevamo già provveduto a pagare ai presenti tre mensilità di stipendio, come premio di smobilitazione, non dimenticando nessuno dei feriti o dei giacenti in vari ospedali. Poi rifornimmo tutti gli uomini di indumenti, sigarette e scatolette di viveri: anche in questo caso fino ad esaurimento delle scorte. Ai molti uomini che ci chiesero di essere lasciati liberi, dopo aver valutato la situazione di ciascuno demmo l’autorizzazione solo a quelli che avevano rifugi sicuri. Altri, non direttamente appartenenti al nostro reparto, se ne andarono di loro iniziativa ma molti, purtroppo, perdettero la vita.







CON L’ONORE DELLE ARMI

Dall’ ufficiale che accolse la nostra resa (5) apprendemmo che alcuni giorni prima gli altri battaglioni del nostro gruppo si erano arresi a Padova con l’onore delle armi tributato in modo solenne. Il comunicato delle ore 01 del 29 Aprile 1945 letto da un’ufficiale britannico diceva.”Anch’io ho conosciuto come voi il dolore della sconfitta e delle prigionia quando a Tobruk, un giorno felice per le vostre armi, dovetti arrendermi con la mia compagnia a soldati valorosi come voi, quanto voi. Tra questi soldati vi erano anche marinai del S. Marco. In nome di Sua Maestà britannica concedo al 1° Gruppo di combattimento della X MAS l’onore delle armi”. Il Gruppo estremo omaggio al valore sfortunato, poté conservare le armi per l’intera notte e i giorni seguenti.
Il giorno successivo all’arrivo degli inglesi fu d’obbligo preparare le cerimonia dell’ammaina bandiera. Fu d’obbligo perché avremmo voluto ritardarla ancora: a soldati di una lunga milizia dura ed onorevole è questa la cerimonia più amara che possa toccare.
Schierati in un perfetto ordine, dopo un breve discorso del Comandante Buttazzoni, si procedette ad ammainare la bandiera della RSI; intensa e palpabile la commozione. Il commissario di polizia, turbato, volle stringere la mano al Comandante ponendosi a sua disposizione. La bandiera fu fatta a pezzi e distribuita a tutti: molti conservano ancora quello struggente ricordo.
Le disposizioni dei vincitori furono le seguenti:
  • trasferimento di tutti gli NP in Algeria (le truppe speciali come le nostre costituivano una seria preoccupazione per tutti)
  • il solo comandante Buttazzoni doveva restare a disposizione dei servizi militari alleati.
  • Buttazzoni, venne trattenuto a Venezia dopo la nostra partenza per la prigionia, subì vari interrogatori dai servizi segreti inglesi e americani. Gli NP del S. Marco del Sud cercarono di convincerlo a fuggire: avrebbero preparato e facilitato la fuga. Buttazzoni rifiutò con fermezza desiderando seguire il destino dei suoi uomini. Da Venezia fu portato prima a Mestre, poi a Rimini e quindi alle Torrette di Ancona:in quest’ultimo campo di concentramento trovò Lenzi, Ceccacci, Fraschini e diversi altri.
In campo di concentramento noi NP fummo considerati, come truppe speciali, “recalcitrans” e tenuti spesso separati dagli altri e controllati più rigorosamente.




VUAGGIO VERSO LA PRIGIONIA

Zarotti, incluso tra quelli trasferiti, evitò la lunga traversia degli interrogatori e forse, ebbe modo di essere scagionato recisamente e definitivamente.
Mai il nostro Comandante venne meno alla fiera e dignitosa regola militare: pose sempre la propria vita a garanzia di tutti i suoi atti e di quelli dei suoi NP i quali, a loro volta, non furono da meno. Per il suo comportamento si guadagnò ammirazione e solidarietà: assai più degli americani che degli inglesi. Dal campo di concentramento di Torrette (Ancona) fuggi rocambolescamente nel settembre nel settembre 1945.
Noi tutti, imbarcanti su vaporetti a avviati verso piazzale Roma sotto la scorta di pochi soldati inglesi, avemmo modo di far conoscere ai Veneziani, chissà con quale sollievo per i comunisti, che stavamo andandocene: chi ci salutava col pugno chiuso riceveva insulti. Comportamento opposto quando qualche persona, specie in gramaglie, ci salutava con gesti affettuosi. Perché non ci fossero dubbi sulla nostra identità, tutti ripetemmo lungo il percorso il ritornello della canzone “Decima flottiglia nostra che beffasti l’Inghilterra” e rispondendo, ad ogni “DECIMA MARINAI!” lanciato da Alvisi, con un formidabile “DECIMA COMANDANTE”!”. Venezia, affollata da una ressa quanto mai cosmopolita e variopinta, ci ascoltava e guardava stupita. Quando, vicino a piazzale Roma, passò sotto bordo una barca da competizione e gli occupanti ci salutarono col pugno chiuso, i ragazzi senza esitazione si privarono di molte scatolette e la barca si rifugiò in un rio laterale. Al momento dello sbarco un mostriciattolo trentenne, una specie di Tersite redevivo, ci accolse con voce stridula e la frase “impiccateli corda e savon” ecc. spalleggiato da altri; un ceffone di un nostro ragazzo ristabilì silenzio e rispetto.
Caricati su una lunga colonna di automezzi, insieme a tutti gli altri prigionieri concentrati a Mestre, il giorno dopo partimmo per Forlì che attraversammo tra due file di folla inferocita urlante minacce di “ A MORTE!” ; “A MORTE!” , che salivano ad ondate sempre più violente. La spiegazione venne quando ci accorgemmo che sul telone di testa era salito il sergente Montini, bolognese, che provocava la folla con insulti di straordinaria potenza.
Appena arrivati ad Ancona subimmo la prima razionale perquisizione, con sottrazione di alcuni di quegli oggetti di valore che alcuni di noi, ingenui, non avevano pensato di nascondere. Poi partimmo in treno per Afragola (Napoli) dove ci riunimmo con il grosso del gruppo di combattimento, cioè Barbarigo, Lupo Colleoni e Freccia.
Trattamento duro sempre. Pochi viveri, poca acqua, molte angherie. Coricarsi sul terreno duro e, in viaggio, lo sfibrante passar la notte in 40 per vagone: impossibile stendersi tutti contemporaneamente (in tutti gli eserciti si sa bene quanto più contino 8 cavalli che non 40 uomini).
Quando ripartimmo da Afragola per Taranto, nell’attraversare il paese con la popolazione che inveiva urlando insulti e minacce, agli inglesi questa volta, qualificati “carnefici di questi poveri figli”, Vercesi, Palomba, Alvisi, e decine di altri furono trascinati a viva forza dentro ai portoni e aiutati a fuggire. Prima di arrivare a Taranto l’ultima beffa fu quella di sganciare il vagone di coda, i cui occupanti, usciti sulla massicciata, ci salutarono gridando Decima e sventolando i fazzoletti.
Ci imbarcammo a Taranto la terza decade di Maggio. Durante la traversata passammo il tempo con un nuovo diversivo: arruolare soldati negri, e non soltanto negri, nel nostro futuro esercito promettendo il doppio del soldo inglese e americano.



  1. Luigi Marini fu in seguito liberato in occasione di uno scambio di prigionieri.

  1. Non avevamo colto l’importanza strategica dell’autorimessa di piazzale Roma: bloccare i carri armati sul ponte di Mestre e impedire l’entrata degli alleati a Venezia avrebbe avuto risonanza mondiale e coronato degnamente la nostra vicenda: Tutto il mondo “liberato”, meno Venezia. E, questo, ad opera degli NP della X Mas.

  1. Due anni dopo Zarotti si incontrò con Martinelli in piazza de Duomo a Milano: si abbracciarono e Martinelli dichiarò di slancio che mai avrebbe pensato di rimpiangere così intensamente di non aver seguito la nostra stessa strada.

  1. Si trattava degli NP del sud, tenente medico Athos Francesconi, tenebti Achille Ambrosi e Angelo Garrone, con il gruppo dei Marò al comando del Ten. Ezio Tartaglia, diretti al fronte quali nostri complimenti. Prima di potersi collegare al Btg. Tartaglia si trovò costretto a porre il suo comando a Cà Tiepolo. In quel momento due gruppi di NP del Nord e il gruppo di NP del Sud (al comando di Ambrosi) si trovavano a non molta distanza fra loro ma, in pratico, impossibilitati a congiungersi.
Attraverso il Po di Goro (il ponte era crollato), Ambrosi giunse a contatto vocale con il gruppo Tartaglia e ne chiese la resa. Tartaglia obiettò che, anche volendo, non avrebbe potuto arrendersi a chi, giuridicamente, non era suo nemico; al che Ambrosi, in attesa che la situazione si chiarisse, si ritirò momentaneamente dopo aver scambiato con Tartaglia un corretto saluto militare di congedo.
Nel frattempo, ormai sopravanzato dal nemico e perciò tagliato fuori dalla lotta, Tartaglia si era asserragliato nel fabbricato del Consorzio Agrario di Cà Tiepolo; così, mentre il Btg. NP stava raggiungendo Venezia dopo una lunga serie di combattimenttùi, egli si trovò a dover trattare con il CNL del luogo. Fece presente che, essendo un militare, non poteva dar credito e udienza a civili; nondimeno, informato che la popolazione aveva urgente bisogno di farina, fece portar fuori quanto richiesto. Venne in tal modo a stabilirsi un insolito rapporto di amicizia mentre sul Consorzio continuava a sventolare la bandiera della RSI unitamente al gagliardetto della X MAS. Il giorno successivo gli uomini di Ambrosi, preceduti da un tenente inglese di collegamento, concessero l’onore delle armi al gruppetto di NP e al loro comandante, Tartaglia, che rimase libero e in uniforme fino al 30 aprile quando fu invitato a presentarsi ai Carabinieri per essere avviato a un campo di concentramento quale unico responsabile del reparto. Tutti i suoi uomini, muniti di validi lasciapassare, poterono raggiungere le loro famiglie.
Tartaglia aveva in precedenza compiuto un’audace missione al Sud, portata a compimento nonostante fosse rimasto seriamente ferito, guadagnandosi una Medaglia d’Argento (per motu proprio di Mussolini), una Croce di Ferro di 1 classe e una promozione per merito di Guerra.















Preghiera degli NP

Eterno, immenso Iddio, che creasti gli eterni spazi e ne misurasti le misteriose profondità, guarda a noi benigno paracadutisti, nuotatori e arditi d’Italia, che nell’adempimento del dovere, ci lanciamo nella vastità dei cieli, fendiamo gli sconfinati spazi dei mari e sfidiamo la morte nelle linee violate del nemico.
Manda gli angeli tuoi a nostri custodi.
Guida e proteggi l’ardimentoso volo, sostieni le nostre forze fra i flutti insidiosi del mare, rinsalda il nostro cuore nell’ora dell’audacia che decide della nostra vita.
La nostra giovane vita e tua, o Signore!
Se è scritto che cadiamo, sia, ma da ogni goccia del nostro sangue balzino gagliardi figli e fratelli innumeri orgogliosi del nostro passato; sempre degni del nostro immancabile avvenire.
Benedici, Signore, la nostra Patria, le famiglie, le nostre mamme, le spose e tutti i nostri cari.
Per loro nell’alba e nel tramonto, sempre la nostra vita!
E per noi, o Signore, il tuo glorificante sorriso.

E così sia




martedì 2 dicembre 2014

...."Barbarigo"....la verità nascosta??








Il 20 maggio 1942, un bollettino straordinario del quartier generale delle Forze Armate italiane comunica:”il 20 maggio alle 2,50’ di Roma, al largo delle coste brasiliane, cento miglia a ponente dell’isola di Fernando de Noronha, il sommergibile Barbarigo. Al comando del capitano di corvetta Enzo Grossi. Passato inosservato fra le cacciatorpediniere di scorta, ha lanciato una salva di siluri contro una corazzata della classe Maryland, armata di 8 cannoni da 406 mm. La nave da battaglia colpita da due siluri, è affondata. La scorta non ha reagito”.
Ecco il suo rapporto di missione :”Giorno 20 maggio 1942. Ore 02,45 in latitudine 04° 19’ sud, longitudine 34° 32’ ovest, rotta 20° vengo chiamato in plancia dall' ufficiale in 2 che contemporaneamente mette barra a dritta, in moto il motore termico di sinistra ed appronta al lancio due tubi di prora e due di poppa. Trovandomi in camera di manovra, vado in plancia ed avvisto un grosso cacciatorpediniere che defila di prora, la vedetta di sinistra (sergente furiere Cammarata) mi avverte che una grossa sagoma si profila alla mia sinistra. Una rapida occhiata mi rende edotto della situazione: sono di fronte ad una nave da battaglia nord americana (facilmente riconoscibile per gli alberi a castello) scortata da cacciatorpediniere.




Decido di attaccarla di poppa poiché oltre al cacciatorpediniere già citato, un altro cacciatorpediniere mi si avvicina a proravia della corazzata. Do incarico ai guardiamarina Tendi e Del Santo di tener d’occhio il primo cacciatorpediniere mentre l’ufficiale in 2da sorveglia l’altro: le vedette mi assicurano la sorveglianza di tutti gli altri settori. Ad una accostata a sinistra del secondo cacciatorpediniere mi vengo a trovare dentro la scorta. Fermo il motore termico di dritta e, con quello di sinistra adagio, continuo l’accostata a dritta. L’ufficiale in seconda mi sollecita il lancio poiché il secondo cacciatorpediniere riaccosta a dritta e a 1000 metri, ha beta zero; non ci ha ancora visti grazie al mare forza tre alla bassa andatura del sommergibile. Prossimo al lancio, che non può fallire data la distanza (circa 650 mt.) del bersaglio, decido di portare al termine l’attacco anche con rischio di speronamento. Il bersaglio impone che si debba arrischiare tutto.
Ore 02,50. Ordino il “fuori” ai siluri 5 e 6; il numero 5 regolato a 4 mt. di profondità e 8000 di corsa è munito di cappuccio, il numero 6 a 2 mt., corsa 2000 metri, è un A 115. Appena lanciato, motore termico avanti adagio, continuo ad accostare sulla dritta sino al rombo 10° corrispondente all’unico settore in cui ho qualche probabilità di disimpegno in superficie. Scarto il disimpegno in immersione poiché la sottobatteria di prora è del tutto inefficiente e quella di poppa può darmi solo 4000 ampères.
Tutte le armi da fuoco sono pronte all’uso per un’estrema resistenza. Dopo 35 secondi due contemporanee esplosioni mi confermano di aver colpito il bersaglio con entrambi i siluri lanciati. Mentre del siluro 5 si sente solo lo scoppio, del 6 l’ufficiale in seconda, passato alla sorveglianza di poppa, vede la fiammata sott’acqua. Vengo avvertito da guardiamarina Tendi, che ha nel campo del binocolo la corazzata, che questa affonda; io pure avevo già avuto netta la sensazione dell’affondamento. Vedo i cacciatorpediniere accorrere veloci verso la nave colpita. Da circa 800 metri di distanza vedo il colosso con prora completamente immersa fino alla plancia, fortemente appruato e sbandato sulla dritta.
02,57. Approdo tubi 7 e 8 da lanciare contro eventuale cacciatorpediniere inseguitore; la scorta con mia somma meraviglia, non reagisce. Gradatamente aumento l’andatura fino a giri 380.
La corazzata, che ho potuto facilmente riconoscere del tipo Maryland-California, naviga con rotta 200°, velocità nodi 15”.
A supporto dell’avvenuto attacco di Grossi alla corazzata giocano anche due testimonianze; la prima è il tenente di vascello Tei, comandante del sommergibile Bagnolini che, giunto in zona la sera del 20 maggio, riferisce di aver trovato unità nemiche che gli hanno dato la caccia, il che conferma la presenza in quel tratto di mare di navi Alleate. La seconda testimonianza è resa da tenente di vascello Gianfranco Gazzana Priaroggia, il quale, giunto in zona all’alba del 23 maggio con il sommergibile Leonardo da Vinci, silura un incrociatore di 9.100 tonn. Intento alla ricerca e al recupero di naufraghi, sego tangibile e ulteriore prova che in zona si è verificato il siluramento di una nave.
L’episodio dell’affondamento della corazzata americana è di tale portata, che il comandante Grossi ottiene in breve tempo riconoscimenti, promozioni e ricompense. Il re Vittorio Emanuele III, motu prprio, promuove Grossi da capitano di corvetta a capitano di fregata, Adolf Hitler gli conferisce due croci di ferro. Una di prima e una di seconda classe e il capitano di vascello Polacchini, comandante della base atlantica di Betasom, lo propone per la medaglia d’oro, che in seguito gli verrà concessa. E il Duce esprime il vivo desiderio di conoscerlo per congratularsi personalmente.



Neppure 5 mesi dopo, e precisamente il 6 ottobre, un altro bollettino straordinario del quartier generale delle Forza armate comunica:” Questa notte alle 2,45 ora italiana, in latitudine 2°15’ nord e longitudine 14°15’ ovest, al largo di Freetown, il sommergibile Barbarigo, al comando del capitano di fregata Enzo Grossi, ha attaccato una corazzata americana classe Mississipi, che navigava rotta 150° alla velocità di 13 nodi. La corazzata, colpita da quatto siluri, è stata vista affondare.
E questo è il rapporto di missione, che riproduciamo integralmente, stilato dal comandante Enzo Grossi dopo l’attacco alla corazzata classe Mississipi: “02,20. l’ufficiale di guardia, sottotenente di vascello Sergio Bresina, mette subito le macchine avanti adagio e nello stesso tempo mi chiama in plancia. Giunto in plancia riconosco la sagoma di una grossa unità di guerra. Metto, girandomi su me stesso, con la sola macchina esterna in moto avanti adagio, la poppa addosso perché il suo beta molto stretto (5° dritta) non mi dà la possibilità per l’attacco di prua. Appronto i quattro tubi di poppa e cerco di studiarne nel frattempo le caratteristiche e gli elementi cinematici necessari al lancio.
02,25. L’unità ha accostato mostrandomi un beta di 70° sulla dritta. Adesso che si profila di traverso vedo il gran complesso centrale della plancia con un solo fumaiolo a poppavia di quella, la prua da veliero e tutte le altre caratteristiche corrispondenti alle navi da battaglia tipo Mississipi.
02,28. Senza porre tempo in mezzo e per non allontanarmi di più riaccosto subito per lanciare di prora senza preoccuparmi di eventuale scorta. Ho già fatto approntare tutti i tubi di prora a 6 metri. Valuto la velocità del nemico intorno a 13 nodi con beta di circa 70° a dritta.
02,32. Ormai giunto a distanza di circa 2.000 metri, per non essere scoperto data la eccezionale fosforescenza, metto pari avanti minimo e lancio i quattro siluri a una distanza di due secondi uno dall’altro.
02,33. Accosto verso la poppa del bersaglio per lanciare eventualmente di poppa e nello stesso tempo essere in grado di disimpegnarmi in superficie.
02,33 e mezzo. Dopo un minuto e mezzo circa vengono da tutti udite quattro grandi esplosioni intervallate dello stesso lasso di tempo del lancio.
02,35. A una distanza di circa 2.000 metri avvisto a poppavia della nave da battaglia una sagoma sottile: la riconosco per un cacciatorpediniere con un beta molto stretto sulla dritta. Scarto senz’altro la possibilità di un disimpegno in immersione, sia per le perdite interne causate dalle forti esplosioni delle bombe lanciatemi durante i due attacchi aerei del primo ottobre, sia per allontanarmi il più possibile da una zona, vicina alle coste, dove sicuramente si riverserà una intensa caccia. Continuo perciò l’accostata per mettermi di poppa il cacciatorpediniere e mantengo sempre al minimo l’andatura delle macchine per non farmi tradire dalla grande fosforescenza della mia scia.
02,38. La nave da battaglia è scomparsa del tutto sott' acqua. Il cacciatorpediniere, forse credendomi in immersione, lancia bombe di profondità e nel frattempo accosta sul luogo dell’avvenuto affondamento. Riaccosto per 90°.
02,43. Avvisto un altro cacciatorpediniere con beta di circa 10° sulla sinistra. Per non essere scoperto, riaccosto e, con prora 250°, mi allontano.
06,00. Comunico subito a codesto Comando Superiore il risultato ottenuto, più che altro per prevenire la caccia che sicuramente si riserverà in quella zona e nelle sue adiacenze. Decido di allontanarmi sempre per ponente in attesa di ordini”.
Rientrato il Barbarigo, alla base di Bordeaux, per Grossi ricominciano i festeggiamenti e il comandante del glorioso sommergibile si guadagna così la promozione a capitano di vascello. Viene di nuovo convocato a Roma e ricevuto con tutti gli onori da Mussolini a Palazzo Venezia. E l’ammiraglio tedesco Doniz in persona lo decorrerà con le insegne di Cavaliere della Croce di Ferro.
Ma nel giro di pochi mesi, però la situazione precipita: prima il 25 luglio, poi l’( settembre scavano un profondo solco nelle Forze Armate italiane. Mentre la flotta italiana, secondo le clausole previste dall’armistizio, si consegna agli Alleati a Malta, il comandante Grossi e un consistente gruppo di ufficiali e marinai riprendono il loro posto di combattimento sotto le insegne della Repubblica Sociale Italiana. Poi dopo il tragico epilogo dell’aprile 1945, l’inizio, anche per Enzo Grossi, delle persecuzioni subite dai vinti.
Nel 1953, l’allora ministro della Difesa Pacciardi risponde con le seguenti parole all’interrogazione di un senatore sul “caso” Grossi. “Le due azioni relative ai pretesi affondamenti delle corazzate Maryland e Mississipi sollevarono molti dubbi negli stessi superiori comandi della Marina Italiana”, e contemporaneamente affida l’inchiesta sul Barbarigo ad un’apposita commissione composta da quattordici ammiragli, molti dei quali erano già stati accusati di connivenza col nemico da Antonino Trizzino nel suo libro Navi e Poltrone.
I componenti della commissione non lasciano nulla di intentato per dimostrare che Grossi non ha mai affondato – e neanche attaccato – le due corazzate nemiche e inviano all’ US Navy Department e all’ Ammiragliato britannico una dettagliata richiesta di informazioni relative agli affondamenti denunciati dal comandante Grossi. L’U.S. Department risponde prontamente:”Nessuna unità navale o mercantile alleata o unità navale degli Stati Uniti è stata attaccata, colpita o affondata nei giorni e posizioni citati. Una cisterna mercantile non identificata e una nave mercantile non identificata si trovavano rispettivamente il 20 maggio e il 6 di ottobre 1942 nelle zone citate, ma nessuna di queste fu attaccata. Non vi furono convogli nelle posizioni e nei giorni citati”.
Dal canto suo l’ammiraglio britannico rende noto che:” Non vi è alcun dato ufficiale di attacco a qualsiasi nave di Sua Maestà britannica nell’ Atlantico

meridionale il maggio 1942, di perdita o danneggiamento o qualsiasi nave da guerra britannica o alleata, su tutti i teatri di guerra in detta data. Tutte le navi mercantili britanniche o alleate, che sono state affondate o danneggiate il 20 maggio 1942, furono attaccate in altre zone. Il 6 ottobre 1942 la corvetta Petunia ha riferito alle 2,27’ GMT (Tempo Medio di Greenwich) un attacco senza successo durante un contatto con un sommergibile in latitudine 2°21’ nord, longitudine 14°30’ ovest”.








Le dichiarazioni fornite dall’Ammiraglio britannico e dall’ U.S. Navy Department, apparentemente, non lasciano adito a dubbi, ma occorre tener presente, però, un piccolo ma significativo e importante particolare. Nelle relazioni inviate alla commissione d’inchiesta della marina italiana dai due organismi Alleati si citano, infatti, giorni e ore, fingendo che il calendario italiano sia valido in tutto il globo. Non tenendo conto del fatto che mentre in Italia batte il mezzogiorno, a Londra sono le undici e a Chicago le cinque del mattino. Anzi, in quel tempo, per l’ora estiva, in Italia gli orologi segnavano un’ora in più: quindi, quando a Fernando de Noronha – isola brasiliana al largo della quale avvenne l’attacco di Grossi alla corazzata – erano le 21,50’ del 19 maggio 1942, a Roma gli orologi segnavano le 2,50’ del 20 maggio; e quando il Freetown (Sierra Leone) – al largo di tale località avvenne il successivo e contestato attacco del Barbarigo a una corazzata americana – erano le 23,54’ del 5 ottobre 1942, a Roma erano le 2,54’ del 6 ottobre. La commissione italiana avrebbe dovuto, quindi, chiedere informazioni relative, rispettivamente, al 19 maggio e al 5 ottobre 1942, poiché se gli orologi delle due navi da guerra americane non erano stati regolati sull’ora locale, continuavano a segnare l’ora di Washington, e cioè le 19,50 del 19 maggio, e le 19,34 del 5 ottobre. Equivoco sulle date, dunque, o voluta malafede???
La commissione speciale d’inchiesta istituita dalla Marina Militare italiana nel 1949 per far luce sulle azioni del Barbarigo, sulla base della documentazione pervenuta dalla Marina USA e dall’Ammiraglio britannico, esclude categoricamente che il comandante Grossi avesse anche solo attaccato nell’azione del 20 maggio 1942 navi da guerra di qualsiasi tipo appartenenti alle marine statunitense, inglese o di altre nazioni alleate. E Grossi, già radiato da ranghi della Marina per aver aderito alla RSI, viene privato anche delle medaglie ricevute per gli affondamenti delle due corazzate.
Nell’autunno 1962, però, nuovi documenti pervenuti alla Marina Militare italiana dagli Stati Uniti, e probabilmente grazie a un nuovo clima che non risente più degli influssi nefasti dell’immediato dopoguerra, l’inchiesta sul “caso” Grossi viene riaperta e affidata, dopo che hanno combattuto eroicamente durante la seconda guerra mondiale l’ammiraglio di divisione Nicola Murzi, il sommergibilista contrammiraglio Luigi Longanesi Cattani e il sommergibilista capitano di vascello Paolo Mario Pollina. I componenti della commissione compiono un minuzioso lavoro di indagine per stabilire la verità storica, giungendo a conclusioni ben diverse da quelle formulate dalla precedente commissione incaricata nel 1949 di indagare sugli affondamenti del Barbarigo. La commissione, il 22 dicembre 1962, presenta la seguente relazione dalla quale risulta che :”il Barbarigo alle 23,07 del 18 maggio, nella zona di oceano intorno al punto di latitudine 02°30’S e longitudine 34° 20’ W, ha fermato con un siluro, cannoneggiato e lasciato in fiamme il piroscafo brasiliano Comandante Lyra.
In soccorso di detto piroscafo diresse a tutta velocità la “Task Force 23” americana che si trovava in crociera di vigilanza nella acque a NE di Capo San Rocco. Detta forza navale era costituita dagli incrociatori Milwaukee e Omaka e dai cacciatorpediniere Moffet e Mc Dougal. Eseguito il siluramento e il cannoneggiamento, il Barbarigo si allontanò dalla zona dirigendo verso Capo San Rocco poiché apprezzò che l’affondamento del piroscafo fosse ineluttabile.
La Commissione fissa così da questo momento, sulla carta nautica, le posizioni delle due unità navali americane durante la navigazione compiuta per raggiungere il porto brasiliano e contemporaneamente quelle del Barbarigo. Da un’accurata analisi degli elementi del moto del Barbarigo e delle due navi nemiche emerge “ in modo inequivocabile” – come recita il rapporto della commissione – “ che essi seguivano rotte di collisione e che l’incontro doveva avvenire verso le 23,00 locali del 19 maggio.
Infatti alle 22,45 – come risulta dal rapporto redatto da Grossi al rientro da quella missione – il Barbarigo aveva un grosso cacciatorpediniere e manovra subito per attaccarlo in superficie. Mentre accosta sulla dritta la vedetta di sinistra avverte il comandante che una grossa sagoma si profila sulla sinistra. Quindi il caccia e la grossa sagoma – prosegue il rapporto della commissione – avvistati il Barbarigo sono inequivocabilmente il Moffet e il Milwaukee.
La relazione continua: “ Il Barbarigo decide immediatamente di cambiare bersaglio e di portare l’attacco sull’unità più importante, che il comandante identifica in una nave da battaglia “facilmente riconoscibile per gli alberi a castello”. Da quanto sopra emerge chiaramente che il comandante ha errato nell’identificare la grossa sagoma di una nave da battaglia USA; tale errore può essere stato determinato dai seguenti fattori.

  1. lunghezza del Milwaukee (182 metri) inferiore solo del 10% a quello delle corazzate tipo Maryland e California (204 metri).
  2. i quattro fumaioli del Milwaukee di cui i due estremi, profilandosi sulle vicine alberature, potevano essere scambiati, di notte per due tralicci a castello.

Giova a questo proposito precisare che le navi da battaglia tipo Maryland e California avevano due soli fumaioli non molto appariscenti, vicini fra loro e alte alberature a castello”.
La commissione, dopo aver fornito una ricostruzione dell’attacco compiuto dal Barbarigo, e rilevati gli errori di apprezzamento sulla rotta e sulla velocità del bersaglio (velocità 15 nodi, anziché 25 e rotta 200°, invece di 170°), sostiene:”effettuato il lancio, il Barbarigo continua ad accostare sulla dritta sino ad assumere rotta praticamente di controbordo alla formazione USA e portando la velocità a 15 nodi. In tali condizioni cinematiche (velocità relativa prossima a 40 nodi) e meteorologiche (notte illune, cielo coperto da cumuli), il Milwaukee è scomparso dalla cista del Barbarigo molto rapidamente. Poiché le unità USA procedevano ad alta velocità con mare forza 4 al mascone, esse dovevano beccheggiare incappellare notevolmente; ciò spiega come il Barbarigo abbia potuto rilevare la nave avversaria con l’acqua fino all’altezza delle torri prodiere e da ciò dedurre che l’unità fosse in fase di affondamento.
Il rapporto della commissione termina affermando , tra l’altro: “Che il Barbarigo ha sicuramente avvistato e attaccato in superficie con decisione e risolutezza una formazione navale composta dall’incrociatore Milwaukee e dal cacciatorpediniere Moffet; che i due siluri lanciati dal Barbarigo non hanno colpito il Milwaukee per forte errore nei dati di lancio; che le unità americane non hanno rilevato né la presenza del Barbarigo né il lancio dei due siluri e che l’errore di identificazione delle unità maggiore avvistata dal sommergibile rientra in quelli che, specialmente di notte, si sono verificati in numerose occasioni. In particolare giova notare che, di notte, la sagoma del Milwauke poteva essere scambiata anche con quella della navi tipo Maryland e California.”
Per quanto riguarda, invece, l’attacco del 6 ottobre 1942, effettuato al largo di Freetown, la seconda commissione d’inchiesta concorda con le conclusioni cui era giunta la prima commissione; e cioè che nella notte fra il 5 e il 6 ottobre 1942 il Barbarigo ha attaccato e lanciato quattro siluri contro la corvetta inglese Petunia, che al momento dell’attacco navigava isolata dopo aver lasciato la scorta di un convoglio.
La commissione istituita nel 1962, dunque, per l’attacco del 20 maggio 1942 giunge a conclusioni che contrastano con quelle riportate nel rapporto presentato dai quattordici ammiragli nel 1949. la commissione precedente, infatti, esclude un qualunque attacco di Grossi a qualsivoglia tipo di nave alleata. Il comandante Grossi, però, non verrà a conoscenza di questi nuovi risultati dell’inchiesta, che lo riabilitano solo parzialmente, perché purtroppo un male inesorabile lo ha stroncato dopo anni di dolorosa attesa.





Nel 1990, il Notiziario della Marina, organo ufficiale della Marina Militare, nel numero di giugno, quasi esclusivamente dedicato al centenario dei sommergibili, descrivendo l’attività operativa del Barbarigo riporta la motivazione della Medaglia d’Argento di cui il sommergibile è stato insignito e che detiene tuttora: “Sommergibile, dislocato fin dall’inizio della guerra in Atlantico, portava nella vastità degli oceani il suo validissimo contributo alla battaglia sul mare per la vittoria della Patria. In numerose dure azioni riusciva ad affondare oltre 100.000 tonnellate di naviglio. In due distinte crociere, in lontane zone oceaniche, dopo lunghe giornate di estenuante agguato, avvistate di nottetempo formazioni di navi maggiori scortate, si incuneava arditamente tra la scorta e il grosso e, con abile e audace manovra silurava ed affondava due potenti navi da battaglia nemiche”.
Orbene, secondo l’organo ufficiale della Marina Militare, Grossi, al comando del Barbarigo, ha affondato “due potenti navi da battaglia nemiche” e, per tali affondamenti, il sommergibile ha ottenuto la Medaglia d’Argento, che non gli è stata tolta nemmeno dopo il verdetto di ben due commissioni di inchiesta che hanno stabilito i mancati affondamenti delle due corazzate americane. E qui, a nostro parere, i conti non tornano e forse, per vedere confermati i siluramenti, si dovrà sperare in alquanto improbabili, future rivelazioni provenienti dagli archivi segreti americani o dell’ammiraglio britannico……

Bibliografia: Dal Barbarigo a Dongo....Enzo Grossi

https://www.youtube.com/watch?v=aAnJBU4L9g4


sabato 29 novembre 2014

giovedì 20 novembre 2014

L' IMPRESA di ALESSANDRIA 19 dicembre 1941










Il bollettino di guerra n°585 del 8 gennaio ’42 riportava l’esito della missione con la seguente frase: “Nella notte del 18 dicembre, mezzi d’assalto della R, Marina, penetrati nel porto di Alessandria, attaccarono due navi da battaglia inglesi ivi ormeggiate. Ora soltanto si è avuto conferma che una nave da battaglia della classe Valiant rimase gravemente danneggiata e fu immessa in bacino dove trovasi tuttora.
Il successivo bollettino n° 586 del 9 gennaio così completava la notizia.
Nell’azione svolta da mezzi d’assalto della R. Marina nel porto di Alessandria, annunciata dal bollettino di ieri, è risultato per ulteriori precisi accertamenti che, oltre alla Valiant, fu danneggiata anche una seconda nave da battaglia del tipo Barham.”.
In tali modesti termini era annunciata una vittoria navale che non ha paragone con nessun’altra ottenuta durante la guerra, per la perfezione dell’esecuzione e per i suoi risultati strategici. Al prezzo di sei prigionieri, erano state affondate, oltre ad una grossa petroliera, due corazzate da 32.000 tonn., le ultime di cui gli inglesi disponessero nel Mediterraneo. Squarciate dall’esplosivo che gli arditi della Decima Flottiglia Mas avevano applicato di persona sotto alle loro carene, esse furono più tardi, con grande dispendio di energia e mezzi, ricuperate, rabberciate alla meglio e poi avviate in tranquilli arsenali lontani per essere riattate: ma non prestarono più alcun utile servizio in guerra e subito dopo la cessazione delle ostilità dovettero essere inviate alla demolizione.










La perdita della Valiant e della Qeen Elizabet, seguita a quelle dell’ Ark Royal e della Barham in Mediterraneo e quasi contemporanea alla distruzione del Repulse e della nuovissima Prince of Wales in Indonesia per opera degli aviatori giapponesi, (1)(10 dicembre 1941)… creò una crisi gravissima alla Marina inglese, superata molto tempo dopo e solo per l’intervento degli aiuti dell’America.
La situazione strategica mediterranea si capovolse: per la prima (e l’ultima) volta nel corso della guerra la Marina italiana si trovò in schiacciante superiorità, conseguendo il potere marittimo nel Mediterraneo; potè pertanto riprendere, praticamente indisturbata, il rifornimento dei suoi eserciti d’oltremare e compiere il trasporto in Libia dell’AFRIKA KORPS tedesco, il che permise di battere, alcuni mesi dopo, l’esercito inglese, ricacciandolo della Cirenaica.
E meglio si sarebbe potuto fare: la nostra superiorità navale in quel periodo fu tale, da permetere alle nostre forze armate di compiere un attacco diretto contro il perno della guerra mediterranea ( e forse non solo mediterranea) : Malta. Un corpo da sbarco trasportato da un convoglio protetto dall’intera flotta italiana, con le nostre corazzate contro nessuna degli inglesi, avrebbe eliminato quell’ostacolo nel cuore del Mediterraneo che tanto danno ci aveva procurato, e tantissimo ce ne doveva ancora infliggere. Si sarebbero così superate le difficoltà in cui da mesi si dibatteva la Marina per rifornire il nostro esercito d’Africa.
Data la sproporzione delle forze navali, l’operazione sarebbe certo riuscita, sia pure con perdite notevoli. Eliminata così la spina dal fianco delle nostre vie di comunicazione attraverso il Mediterraneo, l’occupazione dello Egitto non era più che una questione di tempo, con le incalcolabili conseguenze che tale avvenimento avrebbe prodotto.
La responsabilità di questa occasione mancata ricade, a mio parere, sullo Stato Maggiore Generale italiano, e più ancora sul Quartiere Generale tedesco che, negandoci la nafta e gli aerei necessari, “dimostrò ancora una volta la sua sottovalutazione del potere marittimo nella condotta generale della guerra ed in particolare dell’importanza del Mediterraneo nel quadro generale di tutto il conflitto” 1( Dalla relazione dell’ammiraglio Weichol, ufficiale tedesco di collegamento presso Supermarina, presentata dopo la guerra agli angloamericani.).




La grande vittoria di Alessandria fu quindi solo parzialmente sfruttata : si lasciò tempo al nemico di far affluire in Mediterraneo rinforzi navali ed aerei, tanto che qualche mese dopo la situazione era nuovamente capovolta a nostro svantaggio; e andò sempre peggiorando fino al crollo totale rappresentato con evidenza dallo sgombero dell’Africa Settentrionale (maggio ’43).
Ma quanto grave sia stato il rischio corso dal nemico; quanto noi, per la stoccata inflitta ad Alessandria, si sia stati sul punto di cogliere la decisiva vittoria. È detto meglio di chiunque altro da colui che, dirigendo la condotta della guerra dell’altro lato, maggiormente lo avvertì: Churchill. In un discorso tenuto alla Camere dei Comuni riunita in sessione segreta il 23 aprile ’42, dopo maver annunciato la perdita dell’ Ark Royal, della Barham, del Repulse e del Prince of Wales, cosi continuava: “Un altro colpo mancino stava per esserci vibrato. All’alba del 19 dicembre, mezza dozzina di italiani che indossavano scafandri di forma insolita, furono catturati mentre nuotavano nel porto di Alessandria. Estreme precauzioni erano sempre state prese, in passato, contro i vari tipi di “uomini-siluro” o di sommergibili comandati da un solo uomo che avevano tentato di penetrare nei nostri porti. Non solo vi sono reti ed altri sbarramenti, ma cariche subacquee vengono ogni tanto fatte esplodere sulle rotte di sicurezza.



Ciò nonostante, questi uomini erano riusciti a penetrare nel porto. Quattro ore dopo si verificarono delle esplosioni nelle chiglie della Valiant e della Queen Elisabeth, provocate da bombe adesive applicate con straordinario coraggio e ingegnosità, il cui effetto fu di aprire delle larghe falle nelle carene delle due navi e di allagare parecchi compartimenti stagni, mettendo tali navi fuori combattimento per vari mesi”.
Una di queste sarà pronta in breve, l’altra è ancora nel bacino galleggiante ad Alessandria, e costituisce un costante richiamo per gli attacchi aerei del nemico.
Così. Anche nel Mediterraneo, noi non abbiamo più alcuna nave da battaglia : la Barham è stata affondata e ora tanto la Valiant quanto la Qeen Elisabeth sono state messe completamente fuori uso. Entrambe queste navi, essendo in bacino galleggiante, dall’alto sembrano in ottimo stato. Il nemico per molto tempo non seppe del successo del suo attacco [ i bollettini di guerra italiani sopra riportati smentiscono questa asserzione- Nota dell’A.] e soltanto ora io ritengo opportuno darne comunicazione alla Camera, in seduta segreta.
La flotta italiana possiede ancora quattro o cinque corazzate, già più volte riparate, della classe della nuova Littorio o di altre rimodernate… A difendere dal mare la valle del Nilo sono rimasti sommergibili e cacciatorpediniere con parecchi incrociatori e, naturalmente, le forze aeree delle basi litoranee. Per questa ragione è stato necessario trasferire una parte delle nostre portaerei e dei nostri aeroplani dalle coste meridionali ed orientali dell’Inghilterra alle spiagge del Nord Africa, dove occorrevano immediatamente.”



La decorazione dell’ordine militare di Savoia, che mi veniva conferita motu proprio dal Re in seguito alla missione di Alessandria, era accompagnata dalla seguente motivazione:

Comandante di sommergibile assegnato alla X Flottiglia Mas per operazioni con mezzi speciali d’assalto, dopo aver compiuto con successo tre audaci e difficili imprese, studiava preparava con tecnica perfetta e sagacia una quarta operazione per il forzamento di altra base nemica. Con il suo sommergibile si avvicinava unitissimo porto affrontando con fredda determinazione i rischi frapposti dalla difesa e dalla vigilanza del nemico per mettere i mezzi d’assalto nelle condizioni migliori per il forzamento della base nemica. Lanciava quindi mezzi d’assalto nell’azione che era coronata da brillante successo avendo portato al grave danneggiamento di due corazzate”